Il poeta, vagante in esilio lontano da Venezia, pensa al fratello morto, ma non sa quando potrà fermarsi e tornare a piangerne la giovinezza, immaturamente stroncata dal destino, sostando sulla sua tomba. Presso di essa ora è solo la vecchia madre : alla spoglia che non può darle risposta parta del fratello esule, il quale da lontano pensa a loro, angosciato dalla sventura e tanto profondamente deluso dalla vita. Quando il poeta dalla sua terra d'elisio saluta col cuore la patria perduta, allora comprende meglio le avversità della vita e i tormenti, che sconvolsero la beve esistenza del fratello, e ne invidia, desiderandola anche per sé, la pace che finalmente ha trovato nella morte. Di tante speranze giovanili ora non resta dunque che l'attesa della morte, portatrice di pace, che ponga fine ai travagli e alle delusioni. Ma perché il pensiero della morta sia più dolce, il poeta rivolge un'accorata preghiera agli stranieri, presso i quali morirà esule : restituiscano allora il suo cadavere alla povera madre, che ne avrà lieve conforto. E con lei lo stesso poeta.
Il sonetto è ispirato al famoso carme che il poeta latino Catullo compose sul sepolcro del fratello nella lontana Bitinia, raggiunta dopo un lungo viaggio: ma mentre nel carme latino il motivo ispiratore è il dolore fraterno, qui al centro della poesia foscoliana campeggia il dramma dell'esule che non può piangere sulla tomba del fratello né consolare la madre. La triste sorte dell'infelice famiglia è simboli della profonda infelicità dell'esistenza, che sono nella morte può trovare la pace.
Si noti la delicatezza del poeta, che non accenna al suicidio del fratello: è un tratto di fraterna pietà, che rende ancora più suggestiva e poetica la figura del giovane di cui lascia nel vago i profondi travagli spirituali. Il giovane Giovanni Dionigi Foscolo, ufficiale di artiglieria nell'esercito napoleonico, si uccise a vent'anni, nel dicembre del 1801; il sonetto è stato scritto l'anno successivo
IN MORTE AL FRATELLO GIOVANNI
Un dì, s’io non andrò sempre fuggendo
Di gente in gente; mi vedrai seduto
Su la tua pietra, o fratel mio, gemendo
fior de’ tuoi gentili anni caduto:
La madre or sol, suo dì tardo traendo,
Parla di me col tuo cenere muto:
Ma io deluse a voi le palme tendo;
E se da lunge i miei tetti saluto,
Sento gli avversi Numi, e le secrete
Cure che al viver tuo furon tempesta;
E prego anch’io nel tuo porto quiete:
Questo di tanta speme oggi mi resta!
Straniere genti, l’ossa mie rendete
Allora al petto della madre mesta.
Di gente in gente; mi vedrai seduto
Su la tua pietra, o fratel mio, gemendo
fior de’ tuoi gentili anni caduto:
La madre or sol, suo dì tardo traendo,
Parla di me col tuo cenere muto:
Ma io deluse a voi le palme tendo;
E se da lunge i miei tetti saluto,
Sento gli avversi Numi, e le secrete
Cure che al viver tuo furon tempesta;
E prego anch’io nel tuo porto quiete:
Questo di tanta speme oggi mi resta!
Straniere genti, l’ossa mie rendete
Allora al petto della madre mesta.