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lunedì 26 agosto 2024

italiano - Vincenzo Cuoco

 italiano - Vincenzo Cuoco


Vincenzo Cuoco nacque a Civitacampomarano, nel Molise, nel 1770.

Venuto a Napoli ne 1787 per compiere gli studi di giurisprudenza, si dedicò, invece, all'economia, alla filosofia, alla storia, alla politica. la sua cultura si formò principalmente sugli illuministi napoletani (Genovesi, Galiani, Galanti) e francesi (Montesquieu, Rousseau), ma da essi egli risalì a Macchiavelli e al Vico, la tendenza a una concezione organica della storia e il riconoscimento  del valore della tradizione. Quando, nel '99, scoppiarono  a Napoli  i moti rivoluzionari, conclusisi con la sostenitore del nuovo governo. Notevoli furono, in  questo periodo, le Lettere a Vincenzo Russo, nelle quali discuteva la Costituzione che i repubblicani venivano elaborando e proponeva di estendere le autonomie locali.

Dopo il trionfo della controrivoluzione, fu processato e condannato a vent'anni  d'esilio. riparò prima in Francia, poi a Milano, dove, nel 1801, pubblicò il Saggio Storico  sulla rivoluzione napoletana del 179j9. Ricoprì, quindi, vari incarichi , prima nella Repubblica Cisalpina, poi  nella Repubblica Italiana, il più importante dei quali fu la direzione del Giornale Italiano (1804-1806). Dalle colonne di ess svolse un'attiva propaganda nazionale, incitando gli Italiani a un rinnovamento morale, sociale, politico, economico, che li rendesse degni dell'indipendenza. E' di questi anni anche il Platone in Italia, un romanzo  epistolare che sosteneva la tesi di  un'antichissima civiltà fiorita nell'Italia meridionale prima della colonizzazione greca, e auspicava una rinascita spirituale dell'Italia non ispirata da ideologie straniere, ma dalle sue tradizioni di pensiero  e di civiltà; un motivo, questo, che sarà ampiamente sviluppato ne Risorgimento  e culminerà nel Primato di Gioberti.

Nel 1806, caduti i Borboni, il Cuoco tornò a Napoli, dove coprì importanti cariche sotto Giuseppe Bonaparte e Gioacchino Murat. Dopo la restaurazione borbonica si ritirò  dalla vita politica, e morì pazzo nel 1823.

L'opera sua più importante è il Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799, lucida e appassionata storia d'idee oltre che di fatti. L'autore racconta le vicende della Repubblica Partenopea, inquadrandole in un'acuta disamina della storia europea di quegli anni, dalla Rivoluzione francese, di cui critica l'impostazione e i procedimenti, al suo diffondersi in Italia, fino al trattato di Campoformio, e rievoca le illusioni dei patrioti napletani e l'eroismo col quale seppero sostenere i proprio ideali fino al sacrificio.

Il Saggio riconduce all'astrattezza dottrinaria dei repubblicani il fallimento  della loro azione pratica, Il Cuoco afferma che una rivoluzione non può essere opera di ragione ma deve partire da esigenze concrete, economiche e sociali, del popolo, che si muove solo spinto da bisogno, non dalle ideologie. I rivoluzionari napoletani avevano commesso l'errore di voler applicare il regime e la costituzione della Francia(considerandoli perfetti secondo ragione e quindi di valore assoluto) a un popolo diverso per tradizioni, costumi, struttura economica e politica: era stata. quindi, la loro, una rivoluzione passiva, venuta dall'esterno.

Si è parlato, per questo, di storicismo del Cuoco, ma questo giudizio va preso con cautela. Certo, la sua analisi e le sue critiche rispecchiavano un dato di fatto: la Repubblica Partenopea non era riuscita a vivere nella coscienza delle masse popolari che l'avevano avversata, collaborando in maniera decisiva al trionfo della reazione. Ma il Cuoco non teneva sufficientemente conto del fatto che la crisi militare della Repubblica era nata, inevitabilmente, dalle  vittorie della seconda coalizione antifrancese e inoltre peccava anch'egli di astrattezza, quando  non comprendeva i principi della Rivoluzione francese si erano imposti proprio  per il loro carattere d'universalità, e che una rivoluzione non deve soltanto fondarsi sull'esistente, ma creare una realtà nuova, per iniziativa di pochi, che non solo in seguito diventa coscienza comune. Ma egli non era un rivoluzionario, bnsì un riformista, e il suo pensiero approdava a un cauto liberalismo e a un nazonalismo sincero. Infatti nel Giornale Italiano propugnava un'inidpendenza nazionale italiana, che l'Europa  stessa avrebbe dovuto accettare come elemento di equilibrio politico e riconosceva a Napoleone il merito di aver creato in Italia un regime fondato sull'ordine e sulla legalità, nel pieno rispetto dei costumi e delle tradizioni del popolo, dando  nuova vita alle istituzioni militari e avviando un processo politico unitario.

A tale proposito c'è nel Saggio, un'altra importante costatazione: quella dell'esistenza a Napoli e in tutta l'Italia, di due nazioni di diversa cultura, di diversi costumi, persino di linguaggio diverso. E' il problema, che rimarrà centrale nel nostro Risorgimento  e oltre, di colmare l'abisso esistente fra una minoranza intellettuale progressista e legata alla cultura e alla storia europea, e le masse popolari arretrate, immerse da secoli nell'ignoranza e nella miseria.


giovedì 23 maggio 2024

il Neoclassicismo

 il Neoclassicismo 


Pur ispirandosi sempre più alla realtà  presente e a una sostanza di  affetti già romanticamente orientata, la poesia di quest'età è legata, in Italia, al gusto neoclassico.

Il Neoclassicismo, sorto, come abbiamo visto nella seconda metà del Settecento, in margine a scoperte archeologiche e agli studi  sull'arte classica del tedesco Giovanni Gioacchino Winckelmann e del pittore austriaco Raffaello Mengs, si era subito esteso dalle arti figurative alla letteratura.

Fondamentale era, in esso, l'idea winckelmanniana che l'arte classica esprimesse, con le sue forme limpide  e la sua euritmia, una calma grandezza e una nobile semplicità, specchio dell'armonia  spirituale che veniva additata come carattere fondamentale dell'età antica. Di conseguenza, l'estetica  neoclassica poneva come scopo dell'arte e della poesia  la contemplazione della bellezza ideale, intesa come trasfigurazione della realtà contingente in immagini di bellezza perfetta, fuori del flusso del divenire, non turbata dall'impeto della passione, consistente in una pura, rarefatta  armonia di forme, colori e di suoni.

Quest'ideale, nell'età napoleonica, si attenuò in forme contrastanti. Nella sua forma più diffusa penetrò  nella moda, nel costume, nelle vesti divenne gusto di scenografie spettacolari e solenni, letteratura di evasione fantastica o intesa a nobilitare col ricordo o meglio  con il travestimento di una romanità di parata, i fasti del regime napoleonico. Il rappresentante più celebrato di questa tendenza fu Vincenzo Monti, che pure a tratti ritrovò nell'adesione al mondo classico una limpida misura di umanità.

In altri settori il Neoclassicismo appare permeato della diffusa sensibilità arcadico-preromantica (Pindemonte) e romantica (Foscolo). Il mondo classico è visto come un mondo di serena armonia per sempre perduto verso il quale l'anima romantica, tormentata e complessa, si protende nostalgicamente. Questo nuovo mito della classicità  fu caro a molti poeti legati al Romanticismo, dal Goethe allo Schiller al Hoelderlin in Germania, allo Shelley e al Keats in Inghilterra, al Foscolo e al Leopardi in Italia.

In genere il neoclassicismo italiano cercò di tradurre in forme d'antica bellezza un contenuto attuale e rinnovò dall'interno il classicismo, contribuendo a sgretolare le norme pedantesche in cui si era sempre più irretito nel corso dei secoli; anche se continuò l'ideale di una letteratura rivolta a un pubblico eletto e della poesia come forma di espressione aristocratica.

Va però considerato il fatto che esso, in genere, lasciò sussistere tra la realtà e la sua rappresentazione artistica, lo schermo di convenzioni letterarie e retoriche che finivano per agire in senso antirealistico: la mitologia antica per esempio diventò una sorta di linguaggio stereotipato, non più legato, per giunta, ad alcuna occasione del vivere e del sentire, E' vero tuttavia che la nuova poetica, proclamata da Andrea Chénier in Francia e da Ippolito Pindemonte in Italia, che si propose di fare dei versi antichi su pensieri nuovi, contribuì a un primo svecchiamento della nostra tradizione.