la poesia dialettale
La poesia dialettale ha una tradizione letteraria che risale ai secoli precedenti ; però non tutta la poesia dialettale può essere considerata poesia popolare perchè fatta appunto dal popolo o diffusa tra il popolo . Infatti I poeti dialettali spesso furono dei finissimi letterati che scelsero il dialetto lavorando nel solco di un genere letterario con le sue proprie caratteristiche di contenuto, di stile e di linguaggio ; l'immediatezza, la schiettezza, la semplicità ne sono le note più importanti.
In epoca romantica però la poesia dialettale assume un carattere particolare perché corrisponde all'esigenza di opporsi alla poesia dotta classicistica per volgersi al popolo, ai suoi sentimenti, alla sua vita d'ogni giorno. Nel quadro della lirica romantica poeti come Porta e Belli hanno perciò un posto ben preciso perché corrispondono alle esigenze spirituali e culturali del momento: Naturalmente ciascuno dei due ha una sua fisionomia personale dovuta alla sensibilità, al periodo storico e al mondo ritratto; in comune hanno quello che è tipico dei dialettali, cioè immediatezza e vivacità e maggiore adesione all'anima semplice e spontanea della gente comune.
La poesia dialettale si ripresenta con rinnovata possibilità di diffusione soprattutto nei periodi di tendenza realistica. Così accanto a scrittori regionali di forte impronta dialettale come il milanese De Marchi, i toscani Fucini e Pratesi, il genovese Zena I siciliani Verga e Capuana ecc.
Translate
mercoledì 2 ottobre 2019
venerdì 27 settembre 2019
la golaccia - Giuseppe Gioacchino Belli
la golaccia - Giuseppe Gioacchino Belli
A che serve ammucchiare ricchezze ? A nulla, risponde la saggezza popolare : anto verrà la morte e porrà fine a tutto. Al poverello non servono le ricchezze : per il suo breve viaggio basta un tozzo di pane. L'avidità (la golaccia ) è derisa e condannata da chi ha abituato a guardare la vita con buon senso e distacco,. senza risentimenti verso I più fortunati
metro sonetto
A che serve ammucchiare ricchezze ? A nulla, risponde la saggezza popolare : anto verrà la morte e porrà fine a tutto. Al poverello non servono le ricchezze : per il suo breve viaggio basta un tozzo di pane. L'avidità (la golaccia ) è derisa e condannata da chi ha abituato a guardare la vita con buon senso e distacco,. senza risentimenti verso I più fortunati
metro sonetto
“Quann’io vedo il Sarvini che a sto’ Monno
ppiù ammucchia rancori e ppiù s’ingrassa,
ppiù ha ffame de capestri e vvo’ la cassa
piena de neri da mannalli a fonno,
ppiù ammucchia rancori e ppiù s’ingrassa,
ppiù ha ffame de capestri e vvo’ la cassa
piena de neri da mannalli a fonno,
dico: ohh mmandra de scechi, ammassa, ammassa,
cadaveri de neri che nun ponno,
dar più noia ai ricchi de sto Monno
ma sono in fonno ar mare, ormai melassa.
cadaveri de neri che nun ponno,
dar più noia ai ricchi de sto Monno
ma sono in fonno ar mare, ormai melassa.
Respingili, chiudi li porti oggi
per impedì che lo straniero ancora
possa invade l’Italia come oggi
per impedì che lo straniero ancora
possa invade l’Italia come oggi
Cosa fa er forestiero poverello
attraversando ma
attraversando ma
Spera, se fa coraggio e abbasta quello.”re e deserto ora?
la bbona famijja - Giuseppe Gioacchino Belli
la bbona famijja - di Giuseppe Gioacchino Belli
Ecco un quadro senza retorica della sera di una famiglia dal popolo senza la madre: dopo una giornata di lavoro una povera cena un goccio di vino, due chiacchiere, una preghiera veloce e poi subito a letto. La destinazione di questo interno di povertà è così semplice e contenuta che no fa né richiede commenti
metro sonetto
Ecco un quadro senza retorica della sera di una famiglia dal popolo senza la madre: dopo una giornata di lavoro una povera cena un goccio di vino, due chiacchiere, una preghiera veloce e poi subito a letto. La destinazione di questo interno di povertà è così semplice e contenuta che no fa né richiede commenti
metro sonetto
Mi’ nonna a un’or de notte che vviè ttata
Se leva da filà, ppovera vecchia,
Attizza un carboncello, sciapparecchia,
E mmaggnamo du’ fronne d’inzalata.
Se leva da filà, ppovera vecchia,
Attizza un carboncello, sciapparecchia,
E mmaggnamo du’ fronne d’inzalata.
Quarche vvorta se fàmo una frittata,
Che ssi la metti ar lume sce se specchia
Come fussi a ttraverzo d’un’orecchia:
Quattro nosce, e la scena è tterminata.
Che ssi la metti ar lume sce se specchia
Come fussi a ttraverzo d’un’orecchia:
Quattro nosce, e la scena è tterminata.
Poi ner mentre ch’io, tata e Ccrementina
Seguitamo un par d’ora de sgoccetto,
Lei sparecchia e arissetta la cuscina.
Seguitamo un par d’ora de sgoccetto,
Lei sparecchia e arissetta la cuscina.
E appena visto er fonno ar bucaletto,
’Na pissciatina, ’na sarvereggina,
E, in zanta pasce, sce n’annàmo a lletto
’Na pissciatina, ’na sarvereggina,
E, in zanta pasce, sce n’annàmo a lletto
mercoledì 25 settembre 2019
er caffettiere filosofo - Giuseppe Gioacchino Belli
er caffettiere filosofo - Giuseppe Gioacchino Belli
un caffettiere osservando l'opera di una macina, fa a suo modo delle riflessione filosofiche : anche gli uomini sono come chicchi di caffè nella gran macina della vita destinati a finire in polvere.
La metatesi popolaresca che, trasforma in filosofo, parola estranea all'uso quotidiano, in filosofo, sottolinea il carattere popolare della riflessione, dietro cui il poeta cela la sua visione amara dell'esistenza.
Il sonetto è costruito con rara perfezione : si notino I ritmi continuamente incalzanti come le ruote della macina sino alla conclusione cadenzata è statica dell'ultimo verso
metro sonetto
L'ommini de sto monno sò ll'istesso
Che vvaghi de caffè nner mascinino:
C'uno prima, uno doppo, e un antro appresso,
Tutti cuanti però vvanno a un distino.
Spesso muteno sito, e ccaccia spesso
Er vago grosso er vago piccinino,
E ss'incarzeno, tutti in zu l'ingresso
Der ferro che li sfraggne in porverino.
E ll'ommini accusì vviveno ar monno
Misticati pe mmano de la sorte
Che sse li ggira tutti in tonno in tonno;
E mmovennose oggnuno, o ppiano, o fforte,
Senza capillo mai caleno a ffonno
Pe ccascà nne la gola de la morte.
un caffettiere osservando l'opera di una macina, fa a suo modo delle riflessione filosofiche : anche gli uomini sono come chicchi di caffè nella gran macina della vita destinati a finire in polvere.
La metatesi popolaresca che, trasforma in filosofo, parola estranea all'uso quotidiano, in filosofo, sottolinea il carattere popolare della riflessione, dietro cui il poeta cela la sua visione amara dell'esistenza.
Il sonetto è costruito con rara perfezione : si notino I ritmi continuamente incalzanti come le ruote della macina sino alla conclusione cadenzata è statica dell'ultimo verso
metro sonetto
L'ommini de sto monno sò ll'istesso
Che vvaghi de caffè nner mascinino:
C'uno prima, uno doppo, e un antro appresso,
Tutti cuanti però vvanno a un distino.
Spesso muteno sito, e ccaccia spesso
Er vago grosso er vago piccinino,
E ss'incarzeno, tutti in zu l'ingresso
Der ferro che li sfraggne in porverino.
E ll'ommini accusì vviveno ar monno
Misticati pe mmano de la sorte
Che sse li ggira tutti in tonno in tonno;
E mmovennose oggnuno, o ppiano, o fforte,
Senza capillo mai caleno a ffonno
Pe ccascà nne la gola de la morte.
martedì 24 settembre 2019
Giuseppe Gioacchino Belli
Giuseppe Gioacchino Belli
Giuseppe Gioacchino Belli (1791- 1863), impiegato della Roma papale, tra il '30 e il '40 scrisse più di duemila sonetti in dialetto romanesco non tanto per fare opera di denuncia sociale quanto come documento della vita popolare della sua città
La lingua usata è il romanesco, senza ornamenti né alterazioni né inversioni sintattiche, eccetto quelli usati da chi parla quel dialetto. Attraverso I sonetti vediamo tutta la società romana del tempo ne commento disincantato e amaro del popolo trasteverino : è un colorito e vario quadro d'ambiente e di costume pervaso da un'ironia sulla particolarmente efficace perché
nel giro di poche versi I singoli quadretti si chiudono rapidamente in un gesto, un'osservazione, un'immagine rapida senza ridondanze pietistiche o compiacimenti descrittivi
Giuseppe Gioacchino Belli (1791- 1863), impiegato della Roma papale, tra il '30 e il '40 scrisse più di duemila sonetti in dialetto romanesco non tanto per fare opera di denuncia sociale quanto come documento della vita popolare della sua città
La lingua usata è il romanesco, senza ornamenti né alterazioni né inversioni sintattiche, eccetto quelli usati da chi parla quel dialetto. Attraverso I sonetti vediamo tutta la società romana del tempo ne commento disincantato e amaro del popolo trasteverino : è un colorito e vario quadro d'ambiente e di costume pervaso da un'ironia sulla particolarmente efficace perché
nel giro di poche versi I singoli quadretti si chiudono rapidamente in un gesto, un'osservazione, un'immagine rapida senza ridondanze pietistiche o compiacimenti descrittivi
la preghiera di Carlo Porta
la preghiera di Carlo Porta
E' una finissima satira della boria aristocratica mascherata da pio zelo religioso, donna Fabia Fabroni di Fabriano racconta a don Sigismondo, un ex frate francescano che l'ascolta pazientemente in attesa che il riso finisca di cuocere, quanto le era successo il giorno prima : sulla soglia della chiesa per evitare un prete sporco e unto , era caduta tra I lazzi e il dileggio dei presenti ; rialzatasi era solennemente entrata in chiesa e aveva rivolto a Dio una sua preghiera a Dio la sua preghiera anche per quella plebaglia di pezzenti, ai quali poi, uscendo, aveva fatto, per umiliarli , pubblicamente l'elemosina.
Il personaggio è caratterizzato con un'arte equilibrata e sopraffina; ne balzano evidenti l'albagia, la superbia, l'avarizia, l'ottusità, la vanagloria, la presunzione la stupidità e il ridicolo. Dietro la figura di donna Fabia si intravede una società vacua e moralmente corrotta : l'ironia saporosa e graffiante del Porta manifesta insieme sdegno e commiserazione per tanta bassezza morale, per una mentalità tanto insensibile e ormai in rovinoso sfacelo materiale e spirituale
metro sestine di endecasillabi rimati ab abcc
E' una finissima satira della boria aristocratica mascherata da pio zelo religioso, donna Fabia Fabroni di Fabriano racconta a don Sigismondo, un ex frate francescano che l'ascolta pazientemente in attesa che il riso finisca di cuocere, quanto le era successo il giorno prima : sulla soglia della chiesa per evitare un prete sporco e unto , era caduta tra I lazzi e il dileggio dei presenti ; rialzatasi era solennemente entrata in chiesa e aveva rivolto a Dio una sua preghiera a Dio la sua preghiera anche per quella plebaglia di pezzenti, ai quali poi, uscendo, aveva fatto, per umiliarli , pubblicamente l'elemosina.
Il personaggio è caratterizzato con un'arte equilibrata e sopraffina; ne balzano evidenti l'albagia, la superbia, l'avarizia, l'ottusità, la vanagloria, la presunzione la stupidità e il ridicolo. Dietro la figura di donna Fabia si intravede una società vacua e moralmente corrotta : l'ironia saporosa e graffiante del Porta manifesta insieme sdegno e commiserazione per tanta bassezza morale, per una mentalità tanto insensibile e ormai in rovinoso sfacelo materiale e spirituale
metro sestine di endecasillabi rimati ab abcc
Donna Fabia Fabron de Fabrian
l'eva settada al foeugh sabet passaa
col pader Sigismond ex franzescan,
che intrattant el ghe usava la bontaa
(intrattanta, s'intend, che el ris coseva)
de scoltagh sto discors che la faseva.
Ora mai anche mì don Sigismond
convengo appien nella di lei paura
che sia prossima assai la fin del mond,
chè vedo cose di una tal natura,
d'una natura tal, che non ponn dars
che in un mondo assai prossim a disfars.
Congiur, stupri, rapinn, gent contro gent,
fellonii, uccision de Princip Regg,
violenz, avanii, sovvertiment
de troni e de moral, beffe, motegg
contro il culto, e perfin contro i natal
del primm Cardin dell'ordine social.
Questi, don Sigismond, se non son segni
del complemento della profezia,
non lascian certament d'esser li indegni
frutti dell'attual filosofia;
frutti di cui, pur tropp, ebbi a ingoiar
tutto l'amaro, come or vò a narrar.
Essendo ieri venerdì de marz
fui tratta dalla mia divozion
a Sant Cels, e vi andiedi con quell sfarz
che si adice alla nostra condizion;
il mio copé con l'armi, e i lavorin
tanto al domestich quanto al vetturin.
Tutte le porte e i corridoi davanti
al tempio eren pien cepp d'una faragin
de gent che va, che vien, de mendicanti,
de mercadanti de librett, de immagin,
in guisa che, con tanto furugozz,
agio non v'era a scender dai carrozz.
L'imbarazz era tal che in quella appunt
ch'ero già quasi con un piede abbass,
me urtoron contro un pret sì sporch, si unt
ch'io, per schivarlo e ritirar el pass,
diedi nel legno un sculaccion si grand
che mi stramazzò in terra di rimand.
Come me rimaness in un frangent
di questa fatta è facil da suppôr:
e donna e damma in mezz a tanta gent
nel decor compromessa e nel pudôr
è più che cert che se non persi i sens
fu don del ciel che mi guardà propens.
E tanto più che appena sòrta in piè
sentii da tutt i band quej mascalzoni
a ciuffolarmì dietro il va via vè!
Risa sconc, improperi, atti buffoni,
quasi foss donna a lor egual in rango,
cittadina... merciaja... o simil fango.
Ma, come dissi, quel ciel stess che in cura
m'ebbe mai sempre fino dalla culla,
non lasciò pure in questa congiuntura
de protegerm ad onta del mio nulla,
e nel cuor m'inspirò tanta costanza
quant c'en voleva in simil circostanza.
Fatta maggior de mi, subit impongo
al mio Anselm ch'el tacess, e el me seguiss,
rompo la calca, passo in chiesa, giongo
a' piedi dell'altar del Crocifiss,
me umilio, me raccolgh, poi a memoria
fò al mio Signor questa giaculatoria:
Mio caro buon Gesù, che per decreto
dell'infallibil vostra volontà
m'avete fatta nascere nel ceto
distinto della prima nobiltà,
mentre poteva a un minim cenno vostro
nascer plebea, un verme vile, un mostro:
io vi ringrazio che d'un sì gran bene
abbiev ricolma l'umil mia persona,
tant più che essend le gerarchie terrene
simbol di quelle che vi fan corona
godo così di un grad ch'è riflession
del grad di Troni e di Dominazion.
Questo favor lunge dall'esaltarm,
come accadrebbe in un cervell leggier,
non serve in cambi che a ramemorarm
la gratitudin mia ed il dover
di seguirvi e imitarvi, specialment
nella clemenza con i delinquent.
Quindi in vantaggio di costor anch'io
v'offro quei preghi, che avii faa voi stess
per i vostri nimici al Padre Iddio:
Ah sì abbiate pietà dei lor eccess,
imperciocchè ritengh che mi offendesser
senza conoscer cosa si facesser.
Possa st'umile mia rassegnazion
congiuntament ai merit infinitt
della vostra acerbissima passion
espiar le lor colpe, i lor delitt,
condurli al ben, salvar l'anima mia,
glorificarmi in cielo, e così via.
Volendo poi accompagnar col fatt
le parole, onde avesser maggior pes,
e combinare con un po' d'eclatt
la mortificazíon di chi m'ha offes
e l'esempio alle damme da seguir
ne' contingenti prossimi avvenir,
sòrto a un tratt dalla chiesa, e a quej pezzent
rivolgendem in ton de confidenza,
Quanti siete, domando, buona gent?...
Siamo ventun, rispondon, Eccellenza!
Caspita! molti, replico,... Ventun?...
Non serve: Anselm?... Degh on quattrin per un.
Chì tas la Damma, e chì Don Sigismond
pien come on oeuv de zel de religion,
scoldaa dal son di forzellinn, di tond,
l'eva lì per sfodragh on'orazion,
che se Anselm no interromp con la suppera
vattel a catta che borlanda l'era!
martedì 17 settembre 2019
Carlo Porta
Carlo Porta
Carlo Porta (1775-1821) trascorse la vita nella nativa Milano, coltivando al poesia dialettale con un forte impegno sociale e civile, che da una parte lo riallaccia a Parini e dall'altra lo colloca nel clima del primo romanticismo a cui aderì appassionatamente. L'impiego pubblico che esercitò lo mise quotidianamente in contatto con gente di ogni ceto, ma soprattutto con I poveri, di cui potè conoscere bisogni e sentimenti. la sua poesia da una parte denuncia con profondo sdegno diretti e soprusi degli aristocratici, dall'altra descrive con spirito di commossa partecipazione miserie materiali e spirituali dei poveri e degli oppressi. Il dialetto gli consente una immediatezza e una spontaneità che, pur rasentando talvolta la brutalità realistica, servono ad esprimere con maggior calore e verità tanto la ripulsa morale quanto la solidarietà umana.
Carlo Porta (1775-1821) trascorse la vita nella nativa Milano, coltivando al poesia dialettale con un forte impegno sociale e civile, che da una parte lo riallaccia a Parini e dall'altra lo colloca nel clima del primo romanticismo a cui aderì appassionatamente. L'impiego pubblico che esercitò lo mise quotidianamente in contatto con gente di ogni ceto, ma soprattutto con I poveri, di cui potè conoscere bisogni e sentimenti. la sua poesia da una parte denuncia con profondo sdegno diretti e soprusi degli aristocratici, dall'altra descrive con spirito di commossa partecipazione miserie materiali e spirituali dei poveri e degli oppressi. Il dialetto gli consente una immediatezza e una spontaneità che, pur rasentando talvolta la brutalità realistica, servono ad esprimere con maggior calore e verità tanto la ripulsa morale quanto la solidarietà umana.
Iscriviti a:
Post (Atom)