Su una lettera non scritta
Pubblicata in «Primato», a. I, n. 12, Roma, 15 agosto 1940, insieme a Nel sonno, e
presente in Fin1, Fin2 e in tutte le edizioni di La bufera e altro.
Nella lettera a Silvio Guarnieri del 29 novembre 1965 Montale commenta: «Su
una lettera... Poesia di assenza, di lontananza. Non ci vedo oscurità. Molti particolari
sono realistici. Uno sfondo di guerra c'è [...]. Il tu è lontano, forse non c'è e per questo
la lettera è non scritta. C'è Clizia ma non è necessario darle quel nome. Formicolio
ecc. Tutte immagini realistiche di una vita ridotta a rare apparizioni; queste non
hanno qui il valore di senhal come i due sciacalli» (SMA: 1516-1517).
Con Su una lettera non scritta prosegue la 'sacca oscura' di negatività senza
sbocco e di assenza dell'amata aperta con La bufera e destinata ad abbracciare le
prime liriche della raccolta almeno fino alla Frangia dei capelli..., che costituisce la
prima epifania del visiting angel dopo lo sprofondamento della donna nel «buio».
Nella poesia d'apertura era stata sancita la separazione; in Lungomare la dedicataria
probabilmente non era nemmeno Clizia e comunque era già «troppo tardi» per qualsiasi
tentativo di salvezza; ora è il poeta stesso a fuggire ogni illusione di riscatto, a
rifiutare ogni possibile comunicazione. La bouteille à la mer, a differenza di quella di
De Vigny, non è stata gettata, per cui «L'onda, vuota, / si rompe sulla punta, a Finisterre
».
L'interrogativa iniziale, di disperata ricerca di un senso all'esistenza, non trova risposta.
Lo scenario dei «delfini» che «a coppie / capriolano coi figli» lascia intravedere
un barbaglio di vitalistica esultanza, del tutto incongruente però con il dramma
che sta sconvolgendo la «terra», nonché con il privato «supplizio» del poeta. Sul significato
dei delfini si è soffermata gran parte della critica, riconoscendo in essi ora
un'eco dantesco-hölderliniana, ora il correlativo di un amore realizzato. In quest'ultima
direzione si muove ad esempio Nosenzo, che tuttavia sottolinea la precarietà di
quella sensazione di pienezza, subito infranta per lasciare il posto a una logorante attesa
di improbabili visitazioni e soprattutto insufficiente a riscattare il vuoto di un'esistenza
meccanicamente ripetitiva, insensata e tormentata. Su una lettera non scritta
proporrebbe, in sintesi, la palinodia della poetica dei miracolosi istanti privilegiati
che costituiva il fulcro delle Occasioni, essendo l'epifania naturale solo un'effimera
illusione (cfr. Nosenzo 1995-1996: 43).
In un'accezione toto coelo positiva la interpreta invece Rossella Bo, che contrappone
al potere perturbante di Clizia l'«integra bellezza» dello spettacolo del mondo
animale, arricchito dalla presenza dei figli che garantiscono la continuità della vita e
dei valori contro un inutile scorrere di giorni sempre uguali (Bo 1990: 108). Sulla
possibilità di squarci luminosi, calati nella concretezza del quotidiano ma tali da far
Commento a «La bufera e 22 altro» di Montale
rinviare la ricerca di una salvezza esterna, perché in qualche modo capaci di bilanciare
la sofferenza umana, insisteva infatti già Luperini (cfr. Luperini 1986: 126).
Sulla scorta del XXII canto dell'Inferno, dove i delfini «fanno segno / a' marinar
con l'arco della schiena / che s'argomentin di campar lor legno», Martelli propone invece
una lettura in chiave metapoetica. La presenza degli animali sarebbe dunque un
avvertimento per il poeta-marinaio affinché si ingegni a salvare la nave-forma
nell'imminenza della bufera (cfr. Martelli 1977: 135). Non ci sembra però che qui ci
sia un recupero della funzione che l'affiorare del loro dorso sulla superficie equorea
rivestiva nel bestiario medievale (e dantesco), ossia di indizio di incipiente tempesta.
Nella poesia montaliana l'immagine assume infatti un valore positivo, tanto che in
Satura troveremo il «reticolato / del tramaglio squarciato dai delfini» (Le stagioni). Il
loro «capriolare» è gioioso, ma solo in quanto istintivo e sperduto nella lontananza di
un mare intatto. Ignari della «fossa fuia» che si è spalancata sulla terra, ma soprattutto
inconsapevoli dell'insensatezza dello scorrere dell'esistenza, possono continuare ad
accordarsi con il ciclo vitale-riproduttivo.
I delfini prospettano dunque un miraggio di armonia che non è concessa all'uomo,
cosciente che l'esiguo succedersi dei giorni («un formicolìo d'albe») e i pochi elementi
nei quali è rintracciabile un barlume di vita vera (i «pochi / fili in cui s'impigli
/ il fiocco della vita») non possono in nessun modo fornire una ragione bastante a
motivare l'inesplicabilità dell'esistenza («quella vita ch'ebbero / inesplicata e inesplicabile
»: Proda di Versilia). Si riapre, in questa lirica, l'incolmabile scarto tra un'Esterina
creatura equorea che «la dubbia dimane non [...] impaura» e il poeta «della razza
/ di chi rimane a terra» (Falsetto). E «Ben altro è sulla terra», tanto che da una parte
la vitalità apparentemente appagata della natura rivela, a una più attenta analisi sub
specie teleologica, l'assenza di uno scopo e dall'altra i portentosi segni clizieschi vengono
rifuggiti in quanto provenienti da un 'ordine esistenziale' inconciliabile con
quello umano, contingente e altamente imperfetto. Meglio allora restare ancorati
all'«arido vero» piuttosto che ingannarsi alla luce – qui davvero schopenhauerianamente
accecante e non rivelatrice – di chi non appartiene più a questa dimensione. Il
«bagliore / dei [...] cigli» di Clizia non si farebbe latore che di illusorie speranze e
nuovi turbamenti, troppo sconvolgenti per essere sopportati dal poeta.
Ma soprattutto il mondo ideale di cui la donna è portavoce risulta un prototipo
utopico, allettante ma astratto e inattuabile. Si veda ciò che Montale scrive in Voci
alte e fioche, prosa del 1944 inserita in Auto da fé:
In ogni modo i due emisferi del mondo non sono un'immaginazione, e se si potesse
convogliare nell'uno tutto il brutto, il falso e l'ingiusto esistenti in natura e nell'altro
tutto il bello, il giusto e il vero di quaggiù, molte cose sarebbero risolte. Ci sarebbe
ancora la guerra, ma sarebbe guerra di sempre, guerra eterna, nella quale l'uomo giusto
saprebbe senza esitazioni da che parte schierarsi per lottare [...]. Qui, invece, [...]
non ci sono confini e [...] sulla terra il vero e il falso sono sempre da rifare, sono
sempre in questione, giorno per giorno, senza scampo (SMA: 73-74).
Un passo dove tra l'altro viene riproposta la greca 'trinità' di Bello, Bene e Vero, con
una significativa variatio (il Giusto al posto del Bene) in linea con la metaforica veterotestamentaria
disseminata nelle poesie della Bufera, poiché l'innesto è dal Dio-
Giustizia e non dal Dio-Amore evangelico. L'ottica di Clizia è quella di chi divide il
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mondo in due esatti emisferi, ma una struttura rigidamente manichea mal si applica
alla concretezza del quotidiano, rimanendo un fulgido, platonico modello cui tendere,
nella consapevolezza però che la storia compromette l'archetipo con il divenire. Più
che tra imperativo morale e desideri (cfr. Luperini 1986: 125), lo scontro è tra un
kantiano dover essere e un heideggeriano esserci.
Il dilemma finisce per imbrigliare il soggetto e persino il mondo che lo circonda
in uno stato di impasse: alla dichiarazione «Sparir non so né riaffacciarmi» fa infatti
eco il protrarsi della sera («la sera si fa lunga») e l'indugio della notte che rimanda il
suo arrivo («tarda / la fucina vermiglia / della notte»). L'intera scena è pervasa dall'inerzia,
concludendosi su un mare sterilmente privo di segni. Riemerge insomma il
«delirio [...] d'immobilità» di Arsenio, che invischia il poeta in un limbo dal quale
non riesce a uscire, né interrompendo del tutto il canale di comunicazione con Clizia,
né riconsiderando un'effettiva prospettiva di ricongiungimento. Per questo «la preghiera
è supplizio», essendo il frutto di una lacerante incertezza, dell'attesa di un evento
risolutore che lenisca il tormento dell'indecisione.
E se «non ancora / tra le rocce che sorgono t'è giunta / la bottiglia dal mare» non
è perché «il messaggio del naufrago [...] è inghiottito dall'onda vuota» (Isella 2003:
9), bensì perché la lettera – come dichiara il titolo stesso – non è mai stata scritta. In
questo caso, dunque, non mancano tanto le risposte da parte della donna assente (cfr.
invece Rovegno 1994: 56), né vi è una richiesta di intervento inascoltata: l'onda è
vuota poiché il poeta non ha inviato alcun messaggio, lasciando in sospeso il progetto
di raggiungere oltreoceano l'amata. Le missive indirizzate a Irma agli inizi del 1939:
Il fatto è che sono entrato nella fase più conclusiva e che faccio ogni sforzo, specie
nelle mie notti d'inferno per non pensare a te, altrimenti impazzirei del tutto! Ma ho
fiducia, grande fiducia che presto potrò darti il sì definitivo, e perciò devo risparmiare
ogni forza per essere vivo quel giorno... e i successivi (7 gennaio 1939)
Resta convenuto che se telegrafassi «all right» ciò significa che il breaking è avvenuto
totalmente e definitivamente e che ormai non è più tra noi, per rivederci, che questione
di poche settimane (14 gennaio 1939)
[...] ne avrai, entro il termine fissato, che scade la fine di Marzo, almeno la famosa
conferma telegrafica, alla quale dovrà far seguito più o meno immediato, ma non certo
ritardato di molto, il shipment del latore della presente (22 gennaio 1939)
costituiscono a questo proposito un avantesto chiarificatore, che si convoglia poi in
una «poesia di assenza», dove la lontananza è assolutizzata nella scelta del toponimo
su cui si richiude l'«onda vuota» e che dà il titolo alla sezione.
«Finisterre» non va infatti confuso con il promontorio bretone di Finistère che sarà
presente nei 'Flashes' e dediche, poiché si riferisce semmai al capo più estremo
dell'Europa che si affaccia sull'Oceano Atlantico. Ma soprattutto è, etimologicamente,
una vera a propria finis terrae, al di là della quale si apre un altrove mitico, fatto
di oltrecielo e oltretempo, dove risiede la donna. Nell'introduzione allo Choix de
poèmes di Montale tradotti da Avalle e Hotelier per le Éditions du Continent di Ginevra
nel 1946 Contini così spiega la scelta del titolo: «Le titre de Finisterre réunit
sur le plan unique, où toute contingence s'est muée en valeur universelle, les deux
aspects de l'inspiration montalienne: d'une part, Finisterre est le cap enfoncé dans
Commento a «La bufera e 24 altro» di Montale
l'océan qui sépare de la Bien-aimée, le signe de l'absence; mais d'autre part s'y révèle
une allusion étymologique au désastre de la race humaine» (Contini 1974: 75).
Come evidenzia Bozzola, Su una lettera non scritta rappresenta uno dei rari casi
di perfetto isostrofismo della raccolta, essendo tra l'altro le due parti legate tra loro
tramite le rime imperfette s'impigli:vermiglia e terra:Finisterre (cfr. Bozzola 2006:
39). La /l/ iotacizzata inanella inoltre una serie di rime interne: s'impigli:figli:cigli e
poi, con mutamento di atona nel passaggio di strofa, vermiglia:bottiglia.
*
1-5. Per... figli: Isella conferisce un valore causale all'espressione, che, rafforzando
l'interdipendenza tra i due eventi, svelerebbe maggiormente l'assurdità del nesso
(cfr. Isella 2003: 10). Nosenzo propone invece di interpretare 'al prezzo di', intendendo
che solo all'alto costo di una vita sacrificata nell'attesa, scandita da un tempo
tanto rapido quanto faticosamente ripetitivo, è concesso qualche breve momento di
grazia qual è lo spettacolo dei delfini (cfr. Nosenzo 1995-1996: 43 e 48). A nostro
avviso il «per» ha un'accezione finale, da sciogliere in 'allo scopo di': l'eterno ciclo
naturale e riproduttivo, di cui i delfini rappresentano un'appagata testimonianza, ha
come unico fine un rapido susseguirsi di giorni e qualche sparuta ragione a cui si
debba aggrappare l'essenza di una vita che scorre in una progressione unidirezionale
di ore e anni?
1. formicolìo d'albe: il frequentativo – di pascoliana memoria nella formazione,
come ha ampiamente dimostrato Mengaldo (cfr. Mengaldo 1975: 55) – conferisce un
senso temporale al sintagma (si veda anche «il brusìo / del tempo» del Giglio rosso),
con l'aggiunta di una sfumatura di insignificante concitazione che diremmo derivare
dal paragone tra la vita umana e il formicaio della Ginestra.
2-3. fili... vita: Dante Isella traslittera in «pochi momenti di vita vera» (Isella
2003: 10). Più precisamente, interpreteremmo i «fili in cui s'impigli / il fiocco della
vita» come le esili e fragili cose a cui affidiamo il senso dell'esistenza. Qui, come
nell'Arca («s'è impigliato nell'orto il vello d'oro / che nasconde i miei morti»),
l'«impigliarsi» assume un valore positivo, riferendosi a un bene che, seppure in modo
assai effimero, si ferma per un attimo prima di dissiparsi. Nel Carnevale di Gerti indicava
invece un ostacolo («la ruota» che «s'impiglia nel groviglio / delle stelle filanti
»), anche se pure in quell'occasione l'immagine concretizzava un labile tentativo di
arrestare per un momento il precipitare inesorabile del tempo secondo un percorso
prestabilito.
3. s'incollani: è un denominale di conio montaliano e vale 'susseguirsi', rendendo
l'idea degli anni che si avvicendano l'uno dopo l'altro lungo una linea determinata da
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cui non è concesso debordare. Si confronti anche con Vento e bandiere, negli Ossi di
seppia, dove «non mai due volte configura / il tempo in egual modo i grani».
4. delfini: Martelli chiama in causa Der Archipelagus di Hölderlin («und sonnet
der Delphin, / Aus der Tiefe gelockt, am neuen Lichte den Rücken», che nella traduzione
di Vigolo diventa «e soleggia il delfino / Attratto dal fondo, col dorso alla nuova
luce»), nonché il XXII canto dell'Inferno, dove i delfini «fanno segno / a' marinar
con l'arco della schiena / che s'argomentin di campar lor legno». Di qui l'interpretazione
del «capriolare» come avvertimento per il marinaio-poeta, come sollecitazione
a salvare nella bufera bellica almeno la nave-forma letteraria (cfr. Martelli 1977:
135). Ma diremmo che lo sfondo della guerra dichiarato dallo stesso Montale è presente
più che altro nella «fucina vermiglia» della seconda strofa e nell'allusione che
conclude la prima, «Ben altro è sulla terra». Citeremmo dunque, a raffronto di
quest'immagine, solo il «reticolato / del tramaglio squarciato dai delfini» delle Stagioni
di Satura.
5. capriolano: 'fare capriole'. Per Mengaldo è un prestito govoniano (tra l'altro
non registrato in CONCN) da «Altissimi, per l'aria dai bastioni / capriolano fantastici
aquiloni» di Crepuscolo ferrarese, poesia della raccolta Fuochi d'artifizio del 1905
(cfr. Mengaldo 1975: 77).
7. Ben... terra: è una sorta di capovolgimento del «Ben altro / è l'Amore» dell'Elegia
di Pico Farnese: lì era rifiutato l'«attardarsi» su «questo amore di donne barbute
» a favore del senso più alto del termine offerto dalla «messaggera accigliata»,
mentre qui si fugge come accecante il «bagliore / dei tuoi cigli», inconciliabile con il
mondo reale, imperfetto e flagellato dalla «tregenda» della guerra. La potenza salvifica
dell'angiola, la sua missione di redenzione universale è messa in discussione,
sentita piuttosto come tentazione di evasione per il poeta o come forza soverchiante
capace, al momento, solo di creare ulteriore turbamento. Il modulo sarà poi ripreso
nel Diario postumo, in «ben altro è la felicità» di La felicità.
8. Sparir... riaffacciarmi: richiama un verso della lirica giovanile Violini, ora inserita
nelle Poesie disperse, «volere non so più né disvolere», e in generale l'imprigionante
senso di inerzia e abulia che domina gran parte degli Ossi di seppia e che
trova in Arsenio il rappresentante per antonomasia. Per l'impasse della situazione si
veda anche A C. del Diario del '71 e del '72: «Tentammo un giorno di trovare un
modus / moriendi che non fosse il suicidio / né la sopravvivenza. Altri ne prese / per
noi l'iniziativa; e ora è tardi / per rituffarci dallo scoglio».
8-10. tarda... notte: per Nosenzo è la veglia angosciata del poeta, sospeso nel
dubbio, a protrarre la sera rimandando l'ora del sonno (cfr. Nosenzo 1995-1996: 44 e
53). Concordiamo invece con Isella che legge nella «fucina vermiglia» una metafora,
di sapore barocco, delle luci del tramonto che si allungano («tarda» come 'si attarda')
prima di spegnersi (cfr. Isella 2003: 11). Mengaldo rimanda alla Città di Dite dell'VIII
canto dell'Inferno per il colore delle mura. Aggiungeremmo però che la «fucina», ricordando
quella instancabilmente operosa di Vulcano, allude anche al sinistro affacCommento
a «La bufera e 26 altro» di Montale
cendarsi delle operazioni belliche. A questo proposito si veda nell'Orto «L'ora della
tortura e dei lamenti / che s'abbatté sul mondo, / l'ora che tu leggevi chiara come in
un libro / figgendo il duro sguardo di cristallo / bene in fondo, là dove acri tendìne /
di fuliggine alzandosi su lampi / di officine celavano alla vista / l'opera di Vulcano».
10-11. la sera... supplizio: la sera si prolunga nella logorante attesa di una risoluzione.
Per Isella è «preghiera di morte» (Isella 2003: 11), mentre per Rovegno è un
ulteriore ricorso all'aiuto della donna, che diventa tortura sia in quanto ammissione di
debolezza, sia perché destinato a non essere esaudito (cfr. Rovegno 1994: 53). A nostro
avviso «la preghiera è supplizio» perché segno di una speranza inestinta, che impedisce
al poeta di acquietarsi nella rassegnazione; o forse si tratta di una supplica
rivolta, con doloroso senso di colpa, alla donna affinché conceda al poeta più tempo
per una decisione (come testimoniato dalle lettere spedite a Irma agli inizi del 1939).
11-14. e non... punta: l'immagine, assai ricorrente anche nelle prose di Montale, è
ripresa da La Bouteille à la Mer (Les destinées) di de Vigny, sebbene l'esito sia qui
diverso. Cambon intravede anche un significato metapoetico nel gesto inattuato, poiché
la bottiglia non gettata rappresenterebbe la natura del discorso montaliano in bilico
tra desiderio e impossibilità di comunicazione (cfr. Cambon 1963: 124). Il riferimento
a de Vigny tornerà, più esplicito e congruo, nel Secondo testamento del Diario
postumo: «Ed ora che s'approssima la fine getto / la mia bottiglia che forse darà luogo
/ a un vero parapiglia». In questo caso l'«onda» si ripiega su se stessa, senza portare
messaggi, poiché la lettera attesa da Clizia non è ancora stata scritta dal poeta. Il
«vuoto» è a un tempo quello lasciato dall'amata ormai lontana e la colpevole mancanza
del poeta, incapace di riempirlo, di optare per il «riaffacciarsi».
14. Finisterre: il toponimo non indica il promontorio bretone di Finistère come
avverrà nell'omonima lirica della sezione 'Flashes' e dediche, né in fondo altre località
geograficamente determinate, benché la Finisterre spagnola sia il limine dell'Oceano
che fa da tramite agli scambi epistolari con Irma. La sua valenza è piuttosto mitica,
alludendo ai confini della terra, al Nuovo Mondo, all'altrove dove si è rifugiata
Clizia dopo l'«entrar nel buio» della Bufera.