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lunedì 2 settembre 2019

Giacomo Leopardi - dialogo di Malambruno e di Farfarello

Giacomo Leopardi - dialogo di Malambruno e di Farfarello

Il mago Malmbruno  chiede a Farfarello un diavolo da lui evocato con al facoltà di poter usare tutte le forze infernali al suo servizio di renderlo felice  anche per un solo momento; ma il diavolo non è in grado di soddisfare un tale desiderio, né lo potrebbe lo stesso Belzebù, e gliene dimostra la ragione. L'uomo non solo non può essere felice, ma  non può nemmeno non essere mai infelice perché ama sopra ogni cosa se stesso e, di conseguenza, aspira costantemente alla felicità : ma tale aspirazione non può avere limiti dal momento che nessun piacere, essendo  limitato, non dà  né appagamento né felicità.
Se ne conclude che il non vivere è meglio del vivere  e Farfarello se ne torna all'inferno chiedendo sarcasticamente ( ma con  quanta amarezza per noi ) se Malambruno  vuol morire subito  cedendogli anzitempo l'anima da portare laggiù.
Il dialogo tra i più perfetti per struttura compositiva essenzialità di battute stringatezza di argomentazione equilibrata gradualità dei toni, inizia con brevi note comiche che continuano nelle risposte negative di Farfarello alla richiesta di Malmbruno, ma la tragicità di fondo  della condizione umana gradualmente emerge e si manifesta nel dialogo veloce e serrato che definisce l'impossibilità dell'esistenza ed è cadenzato da una serie di negazioni; il finale giunge quasi all'improvviso con una battuta comica che però è nella sostanza tragicissima perché indica nella sola morte la soluzione all'infelicità della vita

giovedì 29 agosto 2019

Giacomo Leopardi - il linguaggio

Giacomo Leopardi - il linguaggio

La lingua di Leopardi analizzata sotto il profilo lessicale è la lingua della tradizione poetica italiana, classicistica, da Petrarca alla fine del settecento. L'impronta  classicistica deriva da una parte dalla educazione letteraria del poeta, dall'altra da una scelta sapientemente  calcolata in vista di un particolare  poetico : Leopardi riteneva che le forme meno consuete, come latinismi, arcaismi, classicismi, termini dotti, peregrini o poco  usati fossero poeticissime, analogamente alle parole che danno il senso del vago dell'incerto, dell'infinito  e che corrispondono all'umana  tendenza per l'infinito. Infatti come si legge nello Zibaldone 1) l'uso  di voci, modi e significati  tolti dal latino introduce nella poesia il pellegrino  e l'elegante
2) è cosa conosciutissima che alla poesia non solo giova, ma è necessario il pellegrino delle parole delle frasi delle forme
3) il poetico  delle lingua è quasi il medesimo che il pellegrino. D'altra parte sempre dallo Zibaldone sappiano che al Leopardi erano care parole di senso e di significazione quando indefinita tanto poetica
Però malgrado l'impianto lessicale classicistico la poesia leopardiana è modernissima per la presenza di forme e voci tratte dalla lingua parlata (soprattutto aggettivi) e collocate  nei  versi in posizione tale che più di altre si imprimono nella immaginazione nel sentimento  e nella memoria del lettore e più di altre servono ad illuminare  o caratterizzare  una visione o un atteggiamento  perché su di esse cade l'accento  principale  che le rileva nel corpo del discorso  poetico   o perché  sono sottolineate  dal gioco di rime  di assonanze  dei richiami fonici  o melodici
  C'é dunque una fondamentale unità poetica nel linguaggio leopardiano sciolto in un 'atmosfera  di commossa interiorità che fonde armonicamente  natura e sentimento, sentimento e riflessione in un discorso  e ritmo poetico limpido e coerente  che allontana  la rappresentazione solitamente evocata dalla memoria  e contrappuntata dalla meditazione in uno spazio e in un tempo contrappuntata dalla meditazione  in uno spazio e in un tempo che possiamo definire  interiori perché solo esteriormente  richiamano la realtà e la natura l'infinito ne è un esempio  più evidente e significativo  per la perfezione poetica raggiunta.
  Gran parte del fascino della lirica leopardiana è dovuta  alla melodia  che la percorre e che nasce  dall'interno  della sensibilità e della situazione poetica  com'è evidente dal fatto che Leopardi  rifiuta i vincoli rigidi  e mortificanti delle forme fisse  della tradizione letteraria (terzine ottave sonetto ecc) e, se riprende la canzone, che era stata di Petrarca, la usa  però liberamente al di fuori di ogni schema prefissato.

venerdì 16 agosto 2019

A se stesso - Leopardi

A se stesso - Leopardi

Questo idillio ( che non ha più nulla del tradizionale idillio leopardiano arioso e incantato pur nella visione pessimistica della vita ) fa parte di un breve ciclo di liriche dettate dal disastroso esito della vicende che incise profondamente nell'animo del poeta, confermandone l'innato pessimismo : Leopardi si era innamorato di una nobildonna fiorentina, che respinse il suo amore, lasciandolo amareggiato e deluso.
In effetti però la dolorosa esperienza non può essere considerata altro che un'occasione per una più amara ripresa di coscienza del tragico destino umano.
la brevissima lirica non concede più spazio alla descrizione della natura o all'abbandono del sentimento ed ha un linguaggio nudo e potente duramente scandito da pause e ridotto all'essenziale : il discorso poetico è frantumato in brevi periodi anche di una o di sue sole parole, che , con un ritmo  rotto e aspro , distaccano freddamente  la riflessione oggettivandola in una secca e risentita negazione assoluta. Con questi versi Leopardi  si allontana definitivamente dai sogni, dalle illusioni, dalle speranze : abbandonarsi significa lasciarsi consapevolmente ingannare dalla natura, aumentare l'umana infelicità già tanto grande. Solo distaccandosi da una fuggevole e illusoria felicità, che si paga a prezzo di tante delusioni, è possibile difendere una dura tensione eroica la propria individualità, ergendosi con dignità e fierezza contro la crudele legge dell'universo, più ostile che indifferente al nostro tragico destino.

metro: settenari ed endecasillabi

A SE STESSO


Or poserai per sempre,
Stanco mio cor. Perì l'inganno estremo,
Ch'eterno io mi credei. Perì. Ben sento,
In noi di cari inganni,
Non che la speme, il desiderio è spento.
Posa per sempre. Assai
Palpitasti. Non val cosa nessuna
I moti tuoi, nè di sospiri è degna
La terra. Amaro e noia
La vita, altro mai nulla; e fango è il mondo.
T'acqueta omai. Dispera
L'ultima volta. Al gener nostro il fato
Non donò che il morire. Omai disprezza
Te, la natura, il brutto
Poter che, ascoso, a comun danno impera,
E l'infinita vanità del tutto.

la quiete dopo la tempesta - Leopardi

La quiete dopo la tempesta - Leopardi

insieme al sabato del villaggio questo idillio è uno dei più famosi e caratteristici di Leopardi. In esso descrizione e riflessione si fondono poeticamente : la prima non avrebbe senso senza la seconda nè viceversa; infatti la limpida e apparente semplicità della descrizione sarebbe un quadretto di maniera se non generasse dal suo interno l'osservazione che si articola in due parti, passando dalle considerazioni sulla ripresa della vita nel borgo alla riflessione amara sul triste destino dell'uomo legato ad un'esistenza di dolore.
Questi tre momenti ( descrizione, riflessione di carattere particolare, riflessione di carattere generale), corrispondenti alle tre strofe che compongono l'idillio graduano i toni  del discorso poetico, che nella prima parte si allarga e freme di rinnovata vitalità, nella seconda ha un attimo di sospensione per interrogarsi sulle cause e sulla natura di quella improvvisa esplosione di gioia, infine  si chiude in periodi brevi e cupamente scanditi che definiscono l'eterna infelicità umana
 metro : canzone libera di endecasillabi e settenari


LA QUIETE DOPO LA TEMPESTA


Passata è la tempesta:
Odo augelli far festa, e la gallina,
Tornata in su la via,
Che ripete il suo verso. Ecco il sereno
Rompe là da ponente, alla montagna;
Sgombrasi la campagna,
E chiaro nella valle il fiume appare.
Ogni cor si rallegra, in ogni lato
Risorge il romorio
Torna il lavoro usato.
L'artigiano a mirar l'umido cielo,
Con l'opra in man, cantando,
Fassi in su l'uscio; a prova
Vien fuor la femminetta a còr dell'acqua
Della novella piova;
E l'erbaiuol rinnova
Di sentiero in sentiero
Il grido giornaliero.
Ecco il Sol che ritorna, ecco sorride
Per li poggi e le ville. Apre i balconi,
Apre terrazzi e logge la famiglia:
E, dalla via corrente, odi lontano
Tintinnio di sonagli; il carro stride
Del passegger che il suo cammin ripiglia.

Si rallegra ogni core.
Sì dolce, sì gradita
Quand'è, com'or, la vita?
Quando con tanto amore
L'uomo a' suoi studi intende?
O torna all'opre? o cosa nova imprende?
Quando de' mali suoi men si ricorda?
Piacer figlio d'affanno;
Gioia vana, ch'è frutto
Del passato timore, onde si scosse
E paventò la morte
Chi la vita abborria;
Onde in lungo tormento,
Fredde, tacite, smorte,
Sudàr le genti e palpitàr, vedendo
Mossi alle nostre offese
Folgori, nembi e vento.

O natura cortese,
Son questi i doni tuoi,
Questi i diletti sono
Che tu porgi ai mortali. Uscir di pena
E' diletto fra noi.
Pene tu spargi a larga mano; il duolo
Spontaneo sorge: e di piacer, quel tanto
Che per mostro e miracolo talvolta
Nasce d'affanno, è gran guadagno. Umana
Prole cara agli eterni! assai felice
Se respirar ti lice
D'alcun dolor: beata
Se te d'ogni dolor morte risana.

martedì 4 giugno 2019

A Silvia - Giacomo Leopardi

A Silvia - Giacomo Leopardi

dopo I primi idilli Leopardi trascorse tristissimi anni non solo spiritualmente, ma anche fisicamente e arrivò a tal punto di desolazione da non poetare più e da definirsi un sepolcro ambulante che porta dentro di sé un uomo morto. Finalmente nel 1828 trascorse a Pisa un periodo di particolare serenità : nella primavera riprese a comporre versi, nei quali il ricordo della fanciullezza felice lascia lentamente il poso alla consapevolezza che la felicità purtroppo é un'illusione.
Silvia fu, molto probabilmente, una certa Teresa Fattorini, figlia del cocchiere di casa Leopardi, morta giovanissima di tisi;  ma qui è il simbolo poetico dei sogni e delle speranze giovanili.
Il poeta si rivolge a lei, chiedendole se ricordi ancora il bel tempo felice della giovinezza, quando filava e spensieratamente cantava, sognando un dolcissimo avvenire, mentre egli, abbandonando per un attimo lo studio, si affacciava e si lasciava affascinare da quel canto : tutta la natura era in fiore, a entrambi la vita sorrideva, tutto era una radiosa promessa di felicità. Però quel tempo di sogni dorati durò ben poco; Silvia morì prima di vedere realizzarsi I suoi sogni d'amore, ed anche il poeta, per così dire morì, perché non poté godere dei doni radiosi della giovinezza. Dei sogli e delle speranze di allora non gli è rimasto nulla : quando  la realtà ci raggiunge, ogni speranza svanisce, e non ci resta che una tomba squallida e la morte che inesorabilmente conclude ogni cosa.
                     
                                                                  A SILVIA

Silvia, rimembri ancora
Quel tempo della tua vita mortale,
Quando beltà splendea
Negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi,
E tu, lieta e pensosa, il limitare
Di gioventù salivi?

Sonavan le quiete
Stanze, e le vie dintorno,
Al tuo perpetuo canto,
Allor che all'opre femminili intenta
Sedevi, assai contenta
Di quel vago avvenir che in mente avevi.
Era il maggio odoroso: e tu solevi
Così menare il giorno.

Io gli studi leggiadri
Talor lasciando e le sudate carte,
Ove il tempo mio primo
E di me si spendea la miglior parte,
D'in su i veroni del paterno ostello
Porgea gli orecchi al suon della tua voce,
Ed alla man veloce
Che percorrea la faticosa tela.
Mirava il ciel sereno,
Le vie dorate e gli orti,
E quinci il mar da lungi, e quindi il monte.
Lingua mortal non dice
Quel ch'io sentiva in seno.

Che pensieri soavi,
Che speranze, che cori, o Silvia mia!
Quale allor ci apparia
La vita umana e il fato!
Quando sovviemmi di cotanta speme,
Un affetto mi preme
Acerbo e sconsolato,
E tornami a doler di mia sventura.
O natura, o natura,
Perchè non rendi poi
Quel che prometti allor? perchè di tanto
Inganni i figli tuoi?

Tu pria che l'erbe inaridisse il verno,
Da chiuso morbo combattuta e vinta,
Perivi, o tenerella. E non vedevi
Il fior degli anni tuoi;
Non ti molceva il core
La dolce lode or delle negre chiome,
Or degli sguardi innamorati e schivi;
Nè teco le compagne ai dì festivi
Ragionavan d'amore

Anche peria fra poco
La speranza mia dolce: agli anni miei
Anche negaro i fati
La giovanezza. Ahi come,
Come passata sei,
Cara compagna dell'età mia nova,
Mia lacrimata speme!
Questo è quel mondo? questi
I diletti, l'amor, l'opre, gli eventi
Onde cotanto ragionammo insieme?
Questa la sorte dell'umane genti?
All'apparir del vero
Tu, misera, cadesti: e con la mano
La fredda morte ed una tomba ignuda
Mostravi di lontano.

lunedì 27 maggio 2019

la sera del dì di festa - Leopardi

La sera del dì di festa - Leopardi

E' una dolce notte lunare : il poeta ripensa a una fanciulla, che certo in quell'ora dorme serenamente, ignorando l'amore che gli ha suscitati nel cuore. Di fronte alla natura bella e luminosa, il Leopardi lamenta la sorte che lo ha fatto nascere solo per il dolore, negandogli il dono della speranza. Ad altri forse la fanciulla potrà pensare in sogno, certamente non a lui. Intanto nel silenzio si ode il canto di un artigiano che se ne torna a casa : è un canto che lentamente svanisce e poi scompare. Così, pensa il poeta, è il destino di tutte le cose umane; infatti sono passate anche le glorie e I fragori degli antichi imperi. Come può sperare che una cosa tento meno grande e importante, qual è' il sentimento d'amore nato nel cuore, non debba anch'essa svanire ?  Già da fanciullo, quando nella notte seguente al tanto atteso giorno di festa udiva il canto spegnersi poco a poco in lontananza egli provava la stessa angoscia di ora : segno di questo che già da allora nel suo animo albergava il senso della caducità d'ogni cosa, della vanità dei sogni  delle illusioni  per lui pur troppo senza speranza e del dolore che lo avrebbe accompagnato tutta la vita


                                     La sera del dì di festa


Dolce e chiara è la notte e senza vento,
E queta sovra i tetti e in mezzo agli orti
Posa la luna, e di lontan rivela
Serena ogni montagna. O donna mia,
Già tace ogni sentiero, e pei balconi
Rara traluce la notturna lampa:
Tu dormi, che t’accolse agevol sonno
Nelle tue chete stanze; e non ti morde
Cura nessuna; e già non sai nè pensi
Quanta piaga m’apristi in mezzo al petto.
Tu dormi: io questo ciel, che sì benigno
Appare in vista, a salutar m’affaccio,
E l’antica natura onnipossente,
Che mi fece all’affanno. A te la speme
Nego, mi disse, anche la speme; e d’altro
Non brillin gli occhi tuoi se non di pianto.
Questo dì fu solenne: or da’ trastulli
Prendi riposo; e forse ti rimembra
In sogno a quanti oggi piacesti, e quanti
Piacquero a te: non io, non già, ch’io speri,
Al pensier ti ricorro. Intanto io chieggo
Quanto a viver mi resti, e qui per terra
Mi getto, e grido, e fremo. Oh giorni orrendi
In così verde etate! Ahi, per la via
Odo non lunge il solitario canto
Dell’artigian, che riede a tarda notte,
Dopo i sollazzi, al suo povero ostello;
E fieramente mi si stringe il core,
A pensar come tutto al mondo passa,
E quasi orma non lascia. Ecco è fuggito
Il dì festivo, ed al festivo il giorno
Volgar succede, e se ne porta il tempo
Ogni umano accidente. Or dov’è il suono
Di que’ popoli antichi? or dov’è il grido
De’ nostri avi famosi, e il grande impero
Di quella Roma, e l’armi, e il fragorio
Che n’andò per la terra e l’oceano?
Tutto è pace e silenzio, e tutto posa
Il mondo, e più di lor non si ragiona.
Nella mia prima età, quando s’aspetta
Bramosamente il dì festivo, or poscia
Ch’egli era spento, io doloroso, in veglia,
Premea le piume; ed alla tarda notte
Un canto che s’udia per li sentieri
Lontanando morire a poco a poco,
Già similmente mi stringeva il core.

“La sera del dì di festa”: la parafrasi

La notte è serena, mite, e non c’è vento
mentre la luce lunare illumina quieta tetti
e giardini, rendendo nitida da lontano
ogni montagna. O mia donna, ormai ognuna delle vie
del borgo è silenziosa, mentre la lampada notturna
manda una fioca luce dai balconi:
tu dormi, dato che il sonno conciliante
ti ha rapidamente accolto nelle tue silenziose stanza; non c’è
nessuna preoccupazione che ti angoscia; e nulla sai
né ci pensi alla ferita che hai procurato al mio cuore.
Dormi; io mi affaccio per salutare il cielo,
che sembra così benevolo guardandolo, e la natura
eterna e onnipossente, che mi ha messo al mondo
perché io soffrissi. Mi disse: a te nego anche la speranza medesima,
e i tuoi occhi
non dovranno brillare se non per le lacrime.
Questa è stata una giornata di festa e ora tu ti riposi
dai divertimenti; e forse in sogno ti torna in mente
a quanti oggi sei piaciuta, e quanti
sono piaciuti a te: sicuramente non ci sono io a ricorrere nei tuoi pensieri,
né mi illudo che questo possa succedere. Intanto mi chiedo
quanto mi rimanga da vivere, e mi butto, urlo,
e fremo in questa mia stanza.
Oh, giorni tremendi dell’età giovanile! Ahi, per strada
odo il canto solitario non distante
dell’artigiano, che torna tardi la notte,
dopo piaceri e divertimenti, alla sua casa misera;
e il mio cuore si stringe in maniera feroce e dolorosa,
al pensiero di come tutto il mondo sia transitorio,
non lasciando quasi nessuna traccia di sé. Ecco
anche il giorno di festa è passato, e a questo segue
il giorno ordinario, e trascina tutti gli avvenimenti umani con sé.
Dove sta ora il suono di quegli
antichi popoli? Dove si trova ora la voce
dei nostri celebri antenati che si leva alta, e il grande
impero di Roma, e il fragore delle armi,
che attraversò sia le terre che gli oceani?
Tutto quanto è pace e silenzio, e tutto il mondo
si riposa, nè si ha più alcuna memoria di loro.
Nel corso della mia gioventù, quando si aspettava
con febbrile desiderio l’arrivo del giorno festivo,
dopo che era passato, io, insonne e sofferente,
rimanevo a letto disteso; e a notte fonda
si udiva un canto smorzarsi
allontanandosi poco alla volta per i sentieri,
nella stessa maniera di oggi il mio cuore soffocava.

venerdì 17 maggio 2019

verbi copulativi

APPELLATIVI
    ESTIMATIVI
ELETTIVI
EFFETTIVI
chiamare credere scegliere essere
dire                         eleggere apparire
soprannominare stimare nominare sembrare
dichiarare considerare creare diventare

giudicare
rivelarsi

ritenere
mostrarsi



riuscire
 tutti questi verbi sono verbi copulativi che reggono il complemento predicativo del soggetto o oggetto


I verbi copulativi sono quelli che non hanno un significato autonomo, ma ne acquistano uno in presenza di un sostantivo o un aggettivo.
Il verbo copulativo per eccellenza è il verbo essere, ma ce ne sono altri come -->

sembrare, parere, risultare, stare, restare, rimanere, diventare, divenire, nascere, morire, vivere

In analisi logica, col verbo copulativo si forma il predicato nominale
[leggete qui un approfondimento della Treccani perché sulla questione predicato nominale/predicativo del soggetto ci sono diverse scuole di pensiero, quindi, in generale, seguite ciò che vi consiglia il vostro professore!!]
Di seguito alcune frasi con verbi copulativi (in grassetto il verbo copulativo, in rosso il predicato nominale)

  • Il mare sembra più chiaro visto dall'alto
  • Un sostanzioso risarcimento pare la soluzione migliore per tutti
  • I miei sono rimasti stupiti dal voto di Inglese
  • Recentemente i loro rapporti sono diventati più distesi
  • Quell'orologio sembra troppo pretenzioso per i miei gusti
  •  Dopo aver saputo la notizia, sono rimasta triste per tutto il pomeriggio
  • Con le tende chiare la tua stanza sembra molto più grande
  • Elena è diventata grande tutto d'un tratto
  • Tutti apparivano stanchi dopo la gara di nuoto
  • Tuo figlio diventa ogni giorno più diligente