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martedì 3 settembre 2019

Leopardi - pessimismo e ironia

Leopardi - pessimismo e ironia

Le Operette morali nascono in un momento della carriera poetica del Leopardi. Il fondo delle Operette è negativo e amaro, ma vi aleggia un eco delle illusioni e dei sogni da cui è difficile e doloroso staccarsi : la ragione ha ormai scoperto la tragica realtà dell'esistenza, ma il cuore rilutta nell'accettare una totale e dolorosa rinuncia. Attraverso  il dialogo si fa strada l'amarissima negazione di ogni illusine di ogni  speranza, la desolazione di ogni sentimento dolce e caro, l'inutile e vana ricerca di una ragione a tanta infelicità. Miti, credenze, immaginazioni, vagheggiamenti sono collocati in tempi  e spazi remoti, talora fantastici e irreali, in cui  è bandito ogni sentimentalismo  e il discorso procede, distaccato  e come senza risonanze affettive verso la conclusione  negativa
Questo distacco dalla tormentata materia del cuore e della sensibilità degli affetti  è realizzato soprattutto attraverso l'ironia che irridendo alle vanità e alle debolezze degli uomini ne rende vacui e ridicoli aspirazioni, sogni e abbandoni : ma è un'ironia che mentre raggela il cuore pur cela una sottile vena di pietà per una sorte tanto amara.

lunedì 2 settembre 2019

Giacomo Leopardi - dialogo di un venditore di almanacchi e un passeggero

Giacomo Leopardi - dialogo di un venditore di almanacchi e un passeggero

Un venditore di almanacchi offre un almanacco ad un passeggero, che si ferma a fare con lui due chiacchiere, chiedendogli come sarà il nuovo anno. Per il venditore  esso sarà fortunatissimo, addirittura il migliore di quanti ne son già trascorsi. Richiesto  poi se sarebbe disposto a rivivere gli anni già vissuti, egli risponde di no, rifiutando  soprattutto di rivivere il tempo già passato conoscendone tutti gli eventi. La vita, conclude è bella quando si ignora il futuro e si può giorno per giorno sognare e sperare.
La felicità dunque consiste nella speranza  e nella possibilità delle illusioni; questa è opinione dell'uomo comune. Ma le parole del passeggero, distaccate e venate di sottile ironia, celano una più amara verità: anche questa felicità non esiste  perché è vana e infatti che ad essa ingenuamente si affida soffrirà maggiormente. Dietro il passeggero si nasconde lo scrittore, ormai chiuso nella sua totale negazione, al quale la fiduciosa debolezza e la semplicità dell'ignaro venditore strappano un sorriso di comprensione e di pietà.

Giacomo Leopardi - dialogo di Malambruno e di Farfarello

Giacomo Leopardi - dialogo di Malambruno e di Farfarello

Il mago Malmbruno  chiede a Farfarello un diavolo da lui evocato con al facoltà di poter usare tutte le forze infernali al suo servizio di renderlo felice  anche per un solo momento; ma il diavolo non è in grado di soddisfare un tale desiderio, né lo potrebbe lo stesso Belzebù, e gliene dimostra la ragione. L'uomo non solo non può essere felice, ma  non può nemmeno non essere mai infelice perché ama sopra ogni cosa se stesso e, di conseguenza, aspira costantemente alla felicità : ma tale aspirazione non può avere limiti dal momento che nessun piacere, essendo  limitato, non dà  né appagamento né felicità.
Se ne conclude che il non vivere è meglio del vivere  e Farfarello se ne torna all'inferno chiedendo sarcasticamente ( ma con  quanta amarezza per noi ) se Malambruno  vuol morire subito  cedendogli anzitempo l'anima da portare laggiù.
Il dialogo tra i più perfetti per struttura compositiva essenzialità di battute stringatezza di argomentazione equilibrata gradualità dei toni, inizia con brevi note comiche che continuano nelle risposte negative di Farfarello alla richiesta di Malmbruno, ma la tragicità di fondo  della condizione umana gradualmente emerge e si manifesta nel dialogo veloce e serrato che definisce l'impossibilità dell'esistenza ed è cadenzato da una serie di negazioni; il finale giunge quasi all'improvviso con una battuta comica che però è nella sostanza tragicissima perché indica nella sola morte la soluzione all'infelicità della vita

giovedì 29 agosto 2019

Giacomo Leopardi - il linguaggio

Giacomo Leopardi - il linguaggio

La lingua di Leopardi analizzata sotto il profilo lessicale è la lingua della tradizione poetica italiana, classicistica, da Petrarca alla fine del settecento. L'impronta  classicistica deriva da una parte dalla educazione letteraria del poeta, dall'altra da una scelta sapientemente  calcolata in vista di un particolare  poetico : Leopardi riteneva che le forme meno consuete, come latinismi, arcaismi, classicismi, termini dotti, peregrini o poco  usati fossero poeticissime, analogamente alle parole che danno il senso del vago dell'incerto, dell'infinito  e che corrispondono all'umana  tendenza per l'infinito. Infatti come si legge nello Zibaldone 1) l'uso  di voci, modi e significati  tolti dal latino introduce nella poesia il pellegrino  e l'elegante
2) è cosa conosciutissima che alla poesia non solo giova, ma è necessario il pellegrino delle parole delle frasi delle forme
3) il poetico  delle lingua è quasi il medesimo che il pellegrino. D'altra parte sempre dallo Zibaldone sappiano che al Leopardi erano care parole di senso e di significazione quando indefinita tanto poetica
Però malgrado l'impianto lessicale classicistico la poesia leopardiana è modernissima per la presenza di forme e voci tratte dalla lingua parlata (soprattutto aggettivi) e collocate  nei  versi in posizione tale che più di altre si imprimono nella immaginazione nel sentimento  e nella memoria del lettore e più di altre servono ad illuminare  o caratterizzare  una visione o un atteggiamento  perché su di esse cade l'accento  principale  che le rileva nel corpo del discorso  poetico   o perché  sono sottolineate  dal gioco di rime  di assonanze  dei richiami fonici  o melodici
  C'é dunque una fondamentale unità poetica nel linguaggio leopardiano sciolto in un 'atmosfera  di commossa interiorità che fonde armonicamente  natura e sentimento, sentimento e riflessione in un discorso  e ritmo poetico limpido e coerente  che allontana  la rappresentazione solitamente evocata dalla memoria  e contrappuntata dalla meditazione in uno spazio e in un tempo contrappuntata dalla meditazione  in uno spazio e in un tempo che possiamo definire  interiori perché solo esteriormente  richiamano la realtà e la natura l'infinito ne è un esempio  più evidente e significativo  per la perfezione poetica raggiunta.
  Gran parte del fascino della lirica leopardiana è dovuta  alla melodia  che la percorre e che nasce  dall'interno  della sensibilità e della situazione poetica  com'è evidente dal fatto che Leopardi  rifiuta i vincoli rigidi  e mortificanti delle forme fisse  della tradizione letteraria (terzine ottave sonetto ecc) e, se riprende la canzone, che era stata di Petrarca, la usa  però liberamente al di fuori di ogni schema prefissato.

venerdì 16 agosto 2019

A se stesso - Leopardi

A se stesso - Leopardi

Questo idillio ( che non ha più nulla del tradizionale idillio leopardiano arioso e incantato pur nella visione pessimistica della vita ) fa parte di un breve ciclo di liriche dettate dal disastroso esito della vicende che incise profondamente nell'animo del poeta, confermandone l'innato pessimismo : Leopardi si era innamorato di una nobildonna fiorentina, che respinse il suo amore, lasciandolo amareggiato e deluso.
In effetti però la dolorosa esperienza non può essere considerata altro che un'occasione per una più amara ripresa di coscienza del tragico destino umano.
la brevissima lirica non concede più spazio alla descrizione della natura o all'abbandono del sentimento ed ha un linguaggio nudo e potente duramente scandito da pause e ridotto all'essenziale : il discorso poetico è frantumato in brevi periodi anche di una o di sue sole parole, che , con un ritmo  rotto e aspro , distaccano freddamente  la riflessione oggettivandola in una secca e risentita negazione assoluta. Con questi versi Leopardi  si allontana definitivamente dai sogni, dalle illusioni, dalle speranze : abbandonarsi significa lasciarsi consapevolmente ingannare dalla natura, aumentare l'umana infelicità già tanto grande. Solo distaccandosi da una fuggevole e illusoria felicità, che si paga a prezzo di tante delusioni, è possibile difendere una dura tensione eroica la propria individualità, ergendosi con dignità e fierezza contro la crudele legge dell'universo, più ostile che indifferente al nostro tragico destino.

metro: settenari ed endecasillabi

A SE STESSO


Or poserai per sempre,
Stanco mio cor. Perì l'inganno estremo,
Ch'eterno io mi credei. Perì. Ben sento,
In noi di cari inganni,
Non che la speme, il desiderio è spento.
Posa per sempre. Assai
Palpitasti. Non val cosa nessuna
I moti tuoi, nè di sospiri è degna
La terra. Amaro e noia
La vita, altro mai nulla; e fango è il mondo.
T'acqueta omai. Dispera
L'ultima volta. Al gener nostro il fato
Non donò che il morire. Omai disprezza
Te, la natura, il brutto
Poter che, ascoso, a comun danno impera,
E l'infinita vanità del tutto.

la quiete dopo la tempesta - Leopardi

La quiete dopo la tempesta - Leopardi

insieme al sabato del villaggio questo idillio è uno dei più famosi e caratteristici di Leopardi. In esso descrizione e riflessione si fondono poeticamente : la prima non avrebbe senso senza la seconda nè viceversa; infatti la limpida e apparente semplicità della descrizione sarebbe un quadretto di maniera se non generasse dal suo interno l'osservazione che si articola in due parti, passando dalle considerazioni sulla ripresa della vita nel borgo alla riflessione amara sul triste destino dell'uomo legato ad un'esistenza di dolore.
Questi tre momenti ( descrizione, riflessione di carattere particolare, riflessione di carattere generale), corrispondenti alle tre strofe che compongono l'idillio graduano i toni  del discorso poetico, che nella prima parte si allarga e freme di rinnovata vitalità, nella seconda ha un attimo di sospensione per interrogarsi sulle cause e sulla natura di quella improvvisa esplosione di gioia, infine  si chiude in periodi brevi e cupamente scanditi che definiscono l'eterna infelicità umana
 metro : canzone libera di endecasillabi e settenari


LA QUIETE DOPO LA TEMPESTA


Passata è la tempesta:
Odo augelli far festa, e la gallina,
Tornata in su la via,
Che ripete il suo verso. Ecco il sereno
Rompe là da ponente, alla montagna;
Sgombrasi la campagna,
E chiaro nella valle il fiume appare.
Ogni cor si rallegra, in ogni lato
Risorge il romorio
Torna il lavoro usato.
L'artigiano a mirar l'umido cielo,
Con l'opra in man, cantando,
Fassi in su l'uscio; a prova
Vien fuor la femminetta a còr dell'acqua
Della novella piova;
E l'erbaiuol rinnova
Di sentiero in sentiero
Il grido giornaliero.
Ecco il Sol che ritorna, ecco sorride
Per li poggi e le ville. Apre i balconi,
Apre terrazzi e logge la famiglia:
E, dalla via corrente, odi lontano
Tintinnio di sonagli; il carro stride
Del passegger che il suo cammin ripiglia.

Si rallegra ogni core.
Sì dolce, sì gradita
Quand'è, com'or, la vita?
Quando con tanto amore
L'uomo a' suoi studi intende?
O torna all'opre? o cosa nova imprende?
Quando de' mali suoi men si ricorda?
Piacer figlio d'affanno;
Gioia vana, ch'è frutto
Del passato timore, onde si scosse
E paventò la morte
Chi la vita abborria;
Onde in lungo tormento,
Fredde, tacite, smorte,
Sudàr le genti e palpitàr, vedendo
Mossi alle nostre offese
Folgori, nembi e vento.

O natura cortese,
Son questi i doni tuoi,
Questi i diletti sono
Che tu porgi ai mortali. Uscir di pena
E' diletto fra noi.
Pene tu spargi a larga mano; il duolo
Spontaneo sorge: e di piacer, quel tanto
Che per mostro e miracolo talvolta
Nasce d'affanno, è gran guadagno. Umana
Prole cara agli eterni! assai felice
Se respirar ti lice
D'alcun dolor: beata
Se te d'ogni dolor morte risana.

martedì 4 giugno 2019

A Silvia - Giacomo Leopardi

A Silvia - Giacomo Leopardi

dopo I primi idilli Leopardi trascorse tristissimi anni non solo spiritualmente, ma anche fisicamente e arrivò a tal punto di desolazione da non poetare più e da definirsi un sepolcro ambulante che porta dentro di sé un uomo morto. Finalmente nel 1828 trascorse a Pisa un periodo di particolare serenità : nella primavera riprese a comporre versi, nei quali il ricordo della fanciullezza felice lascia lentamente il poso alla consapevolezza che la felicità purtroppo é un'illusione.
Silvia fu, molto probabilmente, una certa Teresa Fattorini, figlia del cocchiere di casa Leopardi, morta giovanissima di tisi;  ma qui è il simbolo poetico dei sogni e delle speranze giovanili.
Il poeta si rivolge a lei, chiedendole se ricordi ancora il bel tempo felice della giovinezza, quando filava e spensieratamente cantava, sognando un dolcissimo avvenire, mentre egli, abbandonando per un attimo lo studio, si affacciava e si lasciava affascinare da quel canto : tutta la natura era in fiore, a entrambi la vita sorrideva, tutto era una radiosa promessa di felicità. Però quel tempo di sogni dorati durò ben poco; Silvia morì prima di vedere realizzarsi I suoi sogni d'amore, ed anche il poeta, per così dire morì, perché non poté godere dei doni radiosi della giovinezza. Dei sogli e delle speranze di allora non gli è rimasto nulla : quando  la realtà ci raggiunge, ogni speranza svanisce, e non ci resta che una tomba squallida e la morte che inesorabilmente conclude ogni cosa.
                     
                                                                  A SILVIA

Silvia, rimembri ancora
Quel tempo della tua vita mortale,
Quando beltà splendea
Negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi,
E tu, lieta e pensosa, il limitare
Di gioventù salivi?

Sonavan le quiete
Stanze, e le vie dintorno,
Al tuo perpetuo canto,
Allor che all'opre femminili intenta
Sedevi, assai contenta
Di quel vago avvenir che in mente avevi.
Era il maggio odoroso: e tu solevi
Così menare il giorno.

Io gli studi leggiadri
Talor lasciando e le sudate carte,
Ove il tempo mio primo
E di me si spendea la miglior parte,
D'in su i veroni del paterno ostello
Porgea gli orecchi al suon della tua voce,
Ed alla man veloce
Che percorrea la faticosa tela.
Mirava il ciel sereno,
Le vie dorate e gli orti,
E quinci il mar da lungi, e quindi il monte.
Lingua mortal non dice
Quel ch'io sentiva in seno.

Che pensieri soavi,
Che speranze, che cori, o Silvia mia!
Quale allor ci apparia
La vita umana e il fato!
Quando sovviemmi di cotanta speme,
Un affetto mi preme
Acerbo e sconsolato,
E tornami a doler di mia sventura.
O natura, o natura,
Perchè non rendi poi
Quel che prometti allor? perchè di tanto
Inganni i figli tuoi?

Tu pria che l'erbe inaridisse il verno,
Da chiuso morbo combattuta e vinta,
Perivi, o tenerella. E non vedevi
Il fior degli anni tuoi;
Non ti molceva il core
La dolce lode or delle negre chiome,
Or degli sguardi innamorati e schivi;
Nè teco le compagne ai dì festivi
Ragionavan d'amore

Anche peria fra poco
La speranza mia dolce: agli anni miei
Anche negaro i fati
La giovanezza. Ahi come,
Come passata sei,
Cara compagna dell'età mia nova,
Mia lacrimata speme!
Questo è quel mondo? questi
I diletti, l'amor, l'opre, gli eventi
Onde cotanto ragionammo insieme?
Questa la sorte dell'umane genti?
All'apparir del vero
Tu, misera, cadesti: e con la mano
La fredda morte ed una tomba ignuda
Mostravi di lontano.

lunedì 27 maggio 2019

la sera del dì di festa - Leopardi

La sera del dì di festa - Leopardi

E' una dolce notte lunare : il poeta ripensa a una fanciulla, che certo in quell'ora dorme serenamente, ignorando l'amore che gli ha suscitati nel cuore. Di fronte alla natura bella e luminosa, il Leopardi lamenta la sorte che lo ha fatto nascere solo per il dolore, negandogli il dono della speranza. Ad altri forse la fanciulla potrà pensare in sogno, certamente non a lui. Intanto nel silenzio si ode il canto di un artigiano che se ne torna a casa : è un canto che lentamente svanisce e poi scompare. Così, pensa il poeta, è il destino di tutte le cose umane; infatti sono passate anche le glorie e I fragori degli antichi imperi. Come può sperare che una cosa tento meno grande e importante, qual è' il sentimento d'amore nato nel cuore, non debba anch'essa svanire ?  Già da fanciullo, quando nella notte seguente al tanto atteso giorno di festa udiva il canto spegnersi poco a poco in lontananza egli provava la stessa angoscia di ora : segno di questo che già da allora nel suo animo albergava il senso della caducità d'ogni cosa, della vanità dei sogni  delle illusioni  per lui pur troppo senza speranza e del dolore che lo avrebbe accompagnato tutta la vita


                                     La sera del dì di festa


Dolce e chiara è la notte e senza vento,
E queta sovra i tetti e in mezzo agli orti
Posa la luna, e di lontan rivela
Serena ogni montagna. O donna mia,
Già tace ogni sentiero, e pei balconi
Rara traluce la notturna lampa:
Tu dormi, che t’accolse agevol sonno
Nelle tue chete stanze; e non ti morde
Cura nessuna; e già non sai nè pensi
Quanta piaga m’apristi in mezzo al petto.
Tu dormi: io questo ciel, che sì benigno
Appare in vista, a salutar m’affaccio,
E l’antica natura onnipossente,
Che mi fece all’affanno. A te la speme
Nego, mi disse, anche la speme; e d’altro
Non brillin gli occhi tuoi se non di pianto.
Questo dì fu solenne: or da’ trastulli
Prendi riposo; e forse ti rimembra
In sogno a quanti oggi piacesti, e quanti
Piacquero a te: non io, non già, ch’io speri,
Al pensier ti ricorro. Intanto io chieggo
Quanto a viver mi resti, e qui per terra
Mi getto, e grido, e fremo. Oh giorni orrendi
In così verde etate! Ahi, per la via
Odo non lunge il solitario canto
Dell’artigian, che riede a tarda notte,
Dopo i sollazzi, al suo povero ostello;
E fieramente mi si stringe il core,
A pensar come tutto al mondo passa,
E quasi orma non lascia. Ecco è fuggito
Il dì festivo, ed al festivo il giorno
Volgar succede, e se ne porta il tempo
Ogni umano accidente. Or dov’è il suono
Di que’ popoli antichi? or dov’è il grido
De’ nostri avi famosi, e il grande impero
Di quella Roma, e l’armi, e il fragorio
Che n’andò per la terra e l’oceano?
Tutto è pace e silenzio, e tutto posa
Il mondo, e più di lor non si ragiona.
Nella mia prima età, quando s’aspetta
Bramosamente il dì festivo, or poscia
Ch’egli era spento, io doloroso, in veglia,
Premea le piume; ed alla tarda notte
Un canto che s’udia per li sentieri
Lontanando morire a poco a poco,
Già similmente mi stringeva il core.

“La sera del dì di festa”: la parafrasi

La notte è serena, mite, e non c’è vento
mentre la luce lunare illumina quieta tetti
e giardini, rendendo nitida da lontano
ogni montagna. O mia donna, ormai ognuna delle vie
del borgo è silenziosa, mentre la lampada notturna
manda una fioca luce dai balconi:
tu dormi, dato che il sonno conciliante
ti ha rapidamente accolto nelle tue silenziose stanza; non c’è
nessuna preoccupazione che ti angoscia; e nulla sai
né ci pensi alla ferita che hai procurato al mio cuore.
Dormi; io mi affaccio per salutare il cielo,
che sembra così benevolo guardandolo, e la natura
eterna e onnipossente, che mi ha messo al mondo
perché io soffrissi. Mi disse: a te nego anche la speranza medesima,
e i tuoi occhi
non dovranno brillare se non per le lacrime.
Questa è stata una giornata di festa e ora tu ti riposi
dai divertimenti; e forse in sogno ti torna in mente
a quanti oggi sei piaciuta, e quanti
sono piaciuti a te: sicuramente non ci sono io a ricorrere nei tuoi pensieri,
né mi illudo che questo possa succedere. Intanto mi chiedo
quanto mi rimanga da vivere, e mi butto, urlo,
e fremo in questa mia stanza.
Oh, giorni tremendi dell’età giovanile! Ahi, per strada
odo il canto solitario non distante
dell’artigiano, che torna tardi la notte,
dopo piaceri e divertimenti, alla sua casa misera;
e il mio cuore si stringe in maniera feroce e dolorosa,
al pensiero di come tutto il mondo sia transitorio,
non lasciando quasi nessuna traccia di sé. Ecco
anche il giorno di festa è passato, e a questo segue
il giorno ordinario, e trascina tutti gli avvenimenti umani con sé.
Dove sta ora il suono di quegli
antichi popoli? Dove si trova ora la voce
dei nostri celebri antenati che si leva alta, e il grande
impero di Roma, e il fragore delle armi,
che attraversò sia le terre che gli oceani?
Tutto quanto è pace e silenzio, e tutto il mondo
si riposa, nè si ha più alcuna memoria di loro.
Nel corso della mia gioventù, quando si aspettava
con febbrile desiderio l’arrivo del giorno festivo,
dopo che era passato, io, insonne e sofferente,
rimanevo a letto disteso; e a notte fonda
si udiva un canto smorzarsi
allontanandosi poco alla volta per i sentieri,
nella stessa maniera di oggi il mio cuore soffocava.

venerdì 17 maggio 2019

l'infinito - Giacomo Leopardi

l'infinito - Giacomo Leopardi

questo idillio ci rivela I sentimenti  e I pensieri che animano il poeta in un momento di contemplazione e di meditazione, in solitudine e silenzio, su un colle solitario .
Lì una siepe impedisce al suo sguardo di spingersi per largo tratto sino al termine dell'orizzonte e favorisce perciò la sua fantasia, che gli fa immaginare, oltre il limite rappresentato dalla siepe, spazi infiniti , silenzi sovrumani e una pace profondissima, di fronte a cui il suo animo si ritrae come preso da sgomento, Ma ad un tratto un alito di vento, frusciando tra I rami degli alberi lo richiama alla realtà : istintivamente egli paragona il fruscio breve del vento al silenzio infinito  della sua immaginazione, che di tanto lo sovrasta. Il vento che passa tra le fronde fa pensare al tempo che passa, e il poeta ancora una volta paragona il temo che invece non ha fine, l'eternità. Con dolcezza il poeta allora poco alla volta si lascia sommergere in questi pensieri  che lo sollevano dalla meschinità della vita terrena alla contemplazione dell'eterno e dell'infinito.







Sempre caro mi fu quest'ermo colle,
E questa siepe, che da tanta parte
Dell'ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
Spazi di là da quella, e sovrumani
Silenzi, e profondissima quiete
Io nel pensier mi fingo; ove per poco
Il cor non si spaura. E come il vento
Odo stormir tra queste piante, io quello
Infinito silenzio a questa voce
Vo comparando: e mi sovvien l'eterno,
E le morte stagioni, e la presente
E viva, e il suon di lei. Così tra questa
Immensità s'annega il pensier mio:
E il naufragar m'è dolce in questo mare.

giovedì 16 maggio 2019

il passero solitario - Giacomo Leopardi

il passero solitario - Giacomo Leopardi

E' uno degli idilli più caratteristici, in cui la contemplazione della natura offre lo spunto alla riflessione. Il Leopardi osserva un passero, che diversamente dagli altri, nel tripudio della primavera e dei voli, se ne sta tutto solo a cantare su un campanile. Il poeta sente di essere simile all'uccelletto : anch'egli  se ne sta tutto solo a meditare, mentre I giovani del paese, lieti e spensierati, si godono il bel giorno di festa. Ma il sole intanto, calando all'orizzonte, sembra ammonire il poeta che la giovinezza poco alla volta se ne va, e non bisogna perciò lasciarsela sfuggire. Per questo conclude amaramente il Leopardi egli è molto più felice del passero : questo si comporta così perché tale é la sua natura, mentre egli dovrebbe come tutti gli altri giovani godere della gioventù fino a che essa dura; da vecchio la rimpiangerà, ma invano.

D'in su la vetta della torre antica,
Passero solitario, alla campagna
Cantando vai finchè non more il giorno;
Ed erra l'armonia per questa valle.
Primavera dintorno
Brilla nell'aria, e per li campi esulta,
Sì ch'a mirarla intenerisce il core.
Odi greggi belar, muggire armenti;
Gli altri augelli contenti, a gara insieme
Per lo libero ciel fan mille giri,
Pur festeggiando il lor tempo migliore:
Tu pensoso in disparte il tutto miri;
Non compagni, non voli,
Non ti cal d'allegria, schivi gli spassi;
Canti, e così trapassi
Dell'anno e di tua vita il più bel fiore.

Oimè, quanto somiglia
Al tuo costume il mio! Sollazzo e riso,
Della novella età dolce famiglia,
E te german di giovinezza, amore,
Sospiro acerbo de' provetti giorni
Non curo, io non so come; anzi da loro
Quasi fuggo lontano;
Quasi romito, e strano
Al mio loco natio,
Passo del viver mio la primavera.
Questo giorno ch'omai cede alla sera,
Festeggiar si costuma al nostro borgo.
Odi per lo sereno un suon di squilla,
Odi spesso un tonar di ferree canne,
Che rimbomba lontan di villa in villa.
Tutta vestita a festa
La gioventù del loco
Lascia le case, e per le vie si spande;
E mira ed è mirata, e in cor s'allegra.
Io solitario in questa
Rimota parte alla campagna uscendo,
Ogni diletto e gioco
Indugio in altro tempo: e intanto il guardo
Steso nell'aria aprica
Mi fere il Sol che tra lontani monti,
Dopo il giorno sereno,
Cadendo si dilegua, e par che dica
Che la beata gioventù vien meno.

Tu, solingo augellin, venuto a sera
Del viver che daranno a te le stelle,
Certo del tuo costume
Non ti dorrai; che di natura è frutto
Ogni vostra vaghezza.
A me, se di vecchiezza
La detestata soglia
Evitar non impetro,
Quando muti questi occhi all'altrui core,
E lor fia voto il mondo, e il dì futuro
Del dì presente più noioso e tetro,
Che parrà di tal voglia?
Che di quest'anni miei? che di me stesso?
Ahi pentirommi, e spesso,
Ma sconsolato, volgerommi indietro.

mercoledì 15 maggio 2019

Giacomo Leopardi

Giacomo leopardi

Nacque a Recanati nel 1798. Il padre conte Monaldo, un letterato di gusto classicistico, dedito agli studi, e la madre Adelaide dei marchesi Antici, attenta vigilatrice del patrimonio dissestato, si occuparono poco dei figli; una tale situazione famigliare e l'arretratezza culturale dell'ambiente recanatese soffocarono in lui la naturale giovanile alla vita espansiva e spensierata: Precocissimo per interessi e capacità intellettuali, divorò le opere contenute nella ricchissima ma antiquata biblioteca paterna, e diventò, pur essendo ancora in giovanissima età, un grande erudito di lingua e letteratura latina e greca. Intanto, con sette anni di studio esasperato e continuo, proprio nell'età dello sviluppo si rovinò per sempre la salute, rimanendo leggermente deforma nel corpo e soffrendo, per tutta la vita di dolori alla vista e al sistema nervoso: La sua vita ebbe come centro Recanati : se ne staccò la prima volta per recarsi a Roma e poi a Milano, A Bologna, a Firenze e a Pisa : ma il paese natale, amato e odiato nello stesso tempo, era  al centro del suo cuore ed egli vi ritornava sempre , sia pur scontento e deluso e pronto a ripartirne alla prima occasione. Nel '30 lo lasciò definitivamente per Firenze, da dove, dopo una grave delusione di amore, passò a Napoli : qui visse, confortato dall'amicizia di Antonio Ranieri, anni di terribili  sofferenze sopportate stoicamente e morì nel 1837.
La produzione poetica leopardiana esigua ma di grandissimo valore , è contenuta nel libro dei Canti  dove campeggiano gli idilli, le sue liriche più belle e caratteristiche.
A differenza degli idilli classici, che erano dei quadretti naturali a  soggetto per lo più amoroso e pastorale, gli idilli leopardiani, situazioni, affezioni , avventure storiche.
secondo la definizione che ne dette lo stesso poeta : la natura suggerisce un triste sentimento di abbandono o un dolce ricordo della lontana infanzia o schiude un sogno di impossibile felicità , ma sul sentimento  interviene la ragione che distrugge ogni illusione e afferma l'eterno dolore dell'esistenza. La vita sembra bella solo quando si è giovani, perchè rallegrata da un sogni e speranze, ma in realtà è per tutti solo fonte di dolore prechè sogli e speranze  sono illusioni che non potranno mai realizzarsi : la liberazione dalle delusioni e dalle sofferenze non può dunque venire che dalla morte, spezzando crudelmente la tensione umana verso la felicità e verso l'infinito.
Oltre ai Canti Leopardi scrisse un importante volumetto in prosa, le Operette morali, per lo più dialoghi tra personaggi reali e immaginari, dove si ritrovano gli stessi sentimenti e le stesse idee. Nelle Operette morali prevale l'abito riflessivo e il dialogo procede con toni solitamente sarcastici che tendono a scardinare credenze ed errori, distruggendo illusioni e desideri vani : è un libro pervaso da un'ironia amara, tutta la testa sottile e senza concessioni  e facili sogni e a falsi sentimentalismi.
Di Leopardi ci restano ancora un bellissimo Epistolario e lo Zibaldone una raccolta di note appunti e riflessioni  d'ogni genere che il poeta redasse durante tutta la vita in queste due opere noi troviamo il materiale da cui sono scaturiti il mondo poetico e l'arte del Canti e delle Operette morali.

martedì 28 novembre 2017

Giacomo Leopardi - I canti

Giacomo Leopardi - I canti

I canti è un volume in cui sono contenute le poesie a Firenze pubblicato  nel 1831 presso l'editore Piatti .
Lo stesso titolo conservò nell'edizione corretta e accresciuta di Napoli. Una  successiva edizione postuma accresciuta dei Canti  fu curata dall'amico Antonio Ranieri  (Firenze 1845).
Anteriormente però al 1831 (a partire dal 1818) molte poesie erano però già state pubblicate  in edizioni parziali.

Le poesie sono 41 contraddistinte da un numero romano e quasi tutte dal titolo. Il Leopardi le ha disposte secondo un criterio personale, spesso  non tenendo conto delle date di composizione.
I termini  di canzoni civili primi idilli ecc. non sono  usati dal poeta nell'edizione dei Canti  ma appartengono  alla consuetudine  della critica che li ha derivati dalle precedenti edizioni.

Le forme metriche più importanti dei Canti sono :

a)  La canzone  è uno dei metri più illustri della poesia italiana. Nel Petrarca (1304-1374)  essa è composta di strofe (o stanze  aventi un numero uguale di versi endecasillabi e settenari disposti e rimasti sempre secondo lo schema della 1° strofa ; è conclusa da un commiato  (o licenza)  una strofa in genere più breve delle precedenti.
Il Leopardi usa la canzone di tipo petrarchesco ma modificandone in vari modi lo schema così  ad esempio nella canzone All'Italia  le strofe pari hanno uno schema metrico diverso da quello delle strofe dispari e manca il commiato. Altre poesie scritte nel metro della canzone sono Ad Angelo Mai, Sopra il monumento di Dante, Nelle nozze della sorella Paolina ecc.

b) la canzone libera  (o leopardiana)  i versi sono quelli della canzone petrarchesca endecasillabi e settenari, ma le strofe sono disuguali e costruite con la massima libertà. Sono canzoni libere  Il passero solitario, A Silvia, Canto notturno di un pastore errante dell'Asia, La quiete dopo la tempesta.

c) Gli endecasillabi sciolti  libere successioni  di endecasillabi  non rimati. Sono composti in tale metro L'infinito, La sera del dì di festa, Le ricordanze Aspasia ecc.

lunedì 13 novembre 2017

A Silvia - Giacomo Leopardi

A Silvia - Giacomo Leopardi

Silvia, rimembri ancora                                                   o Silvia ricordi ancora
quel tempo della tua vita mortale                                   quel periodo della vita terrena
quando beltà splendea                                                    quando la bellezza splendeva
negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi                                  nei tuoi occhi felici e furtivi
e tu lieta e pensosa, il limitare                                        e tu serena e riflessiva ti avvicinavi
di gioventù salivi ?                                                        alla soglia della giovinezza ?

Sonavan le quiete                                                           Le stanze silenziose
stanze e le vie dintorno                                                  e le vie circostanti risuonavano
al tuo perpetuo canto                                                     al tuo canto ininterrotto e spontaneo,
allor che all'opre femminili intenta                              quando sedevi dedita
sedevi assai contenta                                                    ai lavori femminili  e assai felice
di quel vago avvenir che in mente avevi                   di quell'indeterminato futuro che avevi in mente
Era il maggio odoroso: e tu solevi                             era il mese di maggio pieno di profumi
così menare il giorno                                                  e tu eri solita trascorrere così le giornate

Io gli studi leggiadri                                                   Io abbandonavo talvolta  i miei
talor lasciando e le sudate carte                                  amati componimenti su cui faticavo
ove il tempo mio primo                                              dove si spendeva la miglior parte
e di me spendea la miglior parte                                 di me stesso e della mia adolescenza
d'in su i  veroni del paterno ostello                             dai balconi della casa paterna
porgea gli orecchi al suo della tua voce                     porgevo l'udito al suono della tua voce
e alla man veloce                                                        e a quello della mano che
che percorrea la faticosa tela                                      scorreva veloce sulla tela.
Mirava il ciel sereno                                                   Guardavo il cielo sereno
le vie dorate e gli orti                                                 per le strade invase dal sole e per gli orti
e quinci  il mar da lungi e quindi il monte                  e di qui il mar che appare all'orizzonte e quindi
Lingua mortal non dice                                               gli Appennini il linguaggio mortale non dice
quel che io sentiva in seno                                         quel che allora io sentivo nel cuore.

Che pensieri soavi                                                     che pensieri delicati
che speranze, che cori o Silvia mia !                         che speranze che passioni o Silvia mia !
Quale allor ci apparia                                                 Quanto felice ci appariva allora
la vita umana e il fato !                                               la vita umana e il suo destino !
Quando sovvemmi di cotanta speme                          Quando mi torna in mente di tali illusioni
un affetto mi preme                                                      un moto dell'animo  mi stringe
acerbo e sconsolato                                                      in modo acerbo e senza consolazione,
e tornami a doler mia sventura                                     e torno a soffrire la mia sorte sfortunata
o natura o natura                                                           o natura o natura
perché non rendi poi                                                  perché non dai nell'età della maturità
quel che prometti allor ? perché di tanto                  ciò che hai promesso durante la giovinezza perché
inganni i figlio tuoi   ?                                                inganni così tanti i tuoi figli ?


Tu pria che l'erbe inaridisse il verno,                           Tu tormentata e sconfitta da un male incurabile
da chiuso morbo  combattuta e vinta                            prima che l'inverno inaridisse i campi
perivi. o tenerella. E non  vedevi                                   ti spegnevi o tenerella. E non potevi vedere
il fiore degli anni tuoi                                                   il fiore dei tuoi anni;
non ti molceva il core                                                   non ti addolciva il cuore
la dolce lode or delle negre chiome                             ora la lode dei tuoi capelli corvini
or degli sguardi innamorati e schivi                             ora gli sguardi innamorati e pudici
ne teco le compagne ai dì festivi                                   ne con te le compagne dei giorni di festa
ragionavan d'amore                                                      discutevano d'amore.

Anche peria fra poco                                                     In modo simile periva di lì a poco
la speranza mia dolce: agli anni miei                          la mia  dolce speranza il destino ha negato
ache negaro i fati                                                           ai miei anni anche
la giovinezza. Ahi come,                                               la giovinezza.
come passata sei,                                                          Ah mia speranza fonte di lacrime
cara compagna dell'età nova,                                         cara compagna della mia gioventù,
mia lacrima speme !                                                     come sei trascorsa !
Questo è il mondo ? questi                                           questo è il mondo che avevamo sperato ?
i diletti, l'amor l'opre, gli eventi                                   Questi i piaceri l'amore le opere gli eventi
onde cotanto ragionammo insieme ?                            di cui tanto  discutemmo insieme?
Questa la sorte dell'umane genti ?                                questa è la sorte dell'umanità ?
All'apparir del vero                                                       Al disvelamento  della verità
tu misera cadesti  e con la mano                                   tu misera sei caduta : e con la tua mano
la fredda morte ed una tomba ignuda                           indicavi da lontano la fredda morte
mostravi di lontano                                                       e la tomba spoglia




Il canto muove da un ricordo personale ?

Si. In Silvia il poeta rievoca Teresa Fattorini, figlia del cocchiere di casa Leopardi, morta a 21 anni nel 1818. Ma il canto (scritto nel 1828 ) va ben oltre quella lontana realtà: la memoria della giovinetta  come nota il Flora non è più soltanto  evocativa e pietosa ma poetica.... e cioè assunta in un significato lirico ad esprimere non un fatto particolare ma il divino e l'eterno che è in un episodio terrestre.

La figura di Silvia è soltanto un simbolo ?

No. Essa è immagine stupenda di una giovinetta che sale "il limitare di gioventù e muore senza vedere il  fiore dei suoi anni e insieme simbolo poetico  delle speranze dell'adolescente Leopardi  cadute " all'apparir del vero"

Si può dire che A Silvia sia una poesia d'amore  ?

No Silvia non è una donna di cui il Leopardi si fosse innamorato; è una creatura contemplata un tempo con tenerezza e rievocata ora con affettuosa malinconia  per la sua morte precoce; in essa Leopardi vede trascritta la sua stessa vicenda di sogni e delusioni.

Vi sono nel canto  motivi di paesaggio ?

Sì  di un paesaggio che non è già descrizione ma suggestiva interpretazione di uno stato d'animo di giovanile letizia : "quel maggio odoroso "  quel "ciel sereno ", quelle "vie dorate " sottolineano  la serenità e la gioia  primaverile  in cui respira estatica la commozione dell'adolescenza. Da non dimenticare per altro  al verso 40 quel breve suggerimento di un paesaggio invernale ("tu pria che l'erbe inaridisse il verno " ) intonato al tema desolate della morte precoce.

Ne canto il Leopardi dice :

Ahi , come,
come passata sei,
cara compagna dell'età mia nova,
mia lacrima speme !

A chi si rivolge in questi versi il poeta ?

alla speranza rimpianta e vanamente invocata ("lacrima speme") a tutti i suoi sogni ai dolci inganni dell'adolescenza dolorosamente svaniti col sopraggiungere del vero