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martedì 4 giugno 2019

A Silvia - Giacomo Leopardi

A Silvia - Giacomo Leopardi

dopo I primi idilli Leopardi trascorse tristissimi anni non solo spiritualmente, ma anche fisicamente e arrivò a tal punto di desolazione da non poetare più e da definirsi un sepolcro ambulante che porta dentro di sé un uomo morto. Finalmente nel 1828 trascorse a Pisa un periodo di particolare serenità : nella primavera riprese a comporre versi, nei quali il ricordo della fanciullezza felice lascia lentamente il poso alla consapevolezza che la felicità purtroppo é un'illusione.
Silvia fu, molto probabilmente, una certa Teresa Fattorini, figlia del cocchiere di casa Leopardi, morta giovanissima di tisi;  ma qui è il simbolo poetico dei sogni e delle speranze giovanili.
Il poeta si rivolge a lei, chiedendole se ricordi ancora il bel tempo felice della giovinezza, quando filava e spensieratamente cantava, sognando un dolcissimo avvenire, mentre egli, abbandonando per un attimo lo studio, si affacciava e si lasciava affascinare da quel canto : tutta la natura era in fiore, a entrambi la vita sorrideva, tutto era una radiosa promessa di felicità. Però quel tempo di sogni dorati durò ben poco; Silvia morì prima di vedere realizzarsi I suoi sogni d'amore, ed anche il poeta, per così dire morì, perché non poté godere dei doni radiosi della giovinezza. Dei sogli e delle speranze di allora non gli è rimasto nulla : quando  la realtà ci raggiunge, ogni speranza svanisce, e non ci resta che una tomba squallida e la morte che inesorabilmente conclude ogni cosa.
                     
                                                                  A SILVIA

Silvia, rimembri ancora
Quel tempo della tua vita mortale,
Quando beltà splendea
Negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi,
E tu, lieta e pensosa, il limitare
Di gioventù salivi?

Sonavan le quiete
Stanze, e le vie dintorno,
Al tuo perpetuo canto,
Allor che all'opre femminili intenta
Sedevi, assai contenta
Di quel vago avvenir che in mente avevi.
Era il maggio odoroso: e tu solevi
Così menare il giorno.

Io gli studi leggiadri
Talor lasciando e le sudate carte,
Ove il tempo mio primo
E di me si spendea la miglior parte,
D'in su i veroni del paterno ostello
Porgea gli orecchi al suon della tua voce,
Ed alla man veloce
Che percorrea la faticosa tela.
Mirava il ciel sereno,
Le vie dorate e gli orti,
E quinci il mar da lungi, e quindi il monte.
Lingua mortal non dice
Quel ch'io sentiva in seno.

Che pensieri soavi,
Che speranze, che cori, o Silvia mia!
Quale allor ci apparia
La vita umana e il fato!
Quando sovviemmi di cotanta speme,
Un affetto mi preme
Acerbo e sconsolato,
E tornami a doler di mia sventura.
O natura, o natura,
Perchè non rendi poi
Quel che prometti allor? perchè di tanto
Inganni i figli tuoi?

Tu pria che l'erbe inaridisse il verno,
Da chiuso morbo combattuta e vinta,
Perivi, o tenerella. E non vedevi
Il fior degli anni tuoi;
Non ti molceva il core
La dolce lode or delle negre chiome,
Or degli sguardi innamorati e schivi;
Nè teco le compagne ai dì festivi
Ragionavan d'amore

Anche peria fra poco
La speranza mia dolce: agli anni miei
Anche negaro i fati
La giovanezza. Ahi come,
Come passata sei,
Cara compagna dell'età mia nova,
Mia lacrimata speme!
Questo è quel mondo? questi
I diletti, l'amor, l'opre, gli eventi
Onde cotanto ragionammo insieme?
Questa la sorte dell'umane genti?
All'apparir del vero
Tu, misera, cadesti: e con la mano
La fredda morte ed una tomba ignuda
Mostravi di lontano.

lunedì 27 maggio 2019

la sera del dì di festa - Leopardi

La sera del dì di festa - Leopardi

E' una dolce notte lunare : il poeta ripensa a una fanciulla, che certo in quell'ora dorme serenamente, ignorando l'amore che gli ha suscitati nel cuore. Di fronte alla natura bella e luminosa, il Leopardi lamenta la sorte che lo ha fatto nascere solo per il dolore, negandogli il dono della speranza. Ad altri forse la fanciulla potrà pensare in sogno, certamente non a lui. Intanto nel silenzio si ode il canto di un artigiano che se ne torna a casa : è un canto che lentamente svanisce e poi scompare. Così, pensa il poeta, è il destino di tutte le cose umane; infatti sono passate anche le glorie e I fragori degli antichi imperi. Come può sperare che una cosa tento meno grande e importante, qual è' il sentimento d'amore nato nel cuore, non debba anch'essa svanire ?  Già da fanciullo, quando nella notte seguente al tanto atteso giorno di festa udiva il canto spegnersi poco a poco in lontananza egli provava la stessa angoscia di ora : segno di questo che già da allora nel suo animo albergava il senso della caducità d'ogni cosa, della vanità dei sogni  delle illusioni  per lui pur troppo senza speranza e del dolore che lo avrebbe accompagnato tutta la vita


                                     La sera del dì di festa


Dolce e chiara è la notte e senza vento,
E queta sovra i tetti e in mezzo agli orti
Posa la luna, e di lontan rivela
Serena ogni montagna. O donna mia,
Già tace ogni sentiero, e pei balconi
Rara traluce la notturna lampa:
Tu dormi, che t’accolse agevol sonno
Nelle tue chete stanze; e non ti morde
Cura nessuna; e già non sai nè pensi
Quanta piaga m’apristi in mezzo al petto.
Tu dormi: io questo ciel, che sì benigno
Appare in vista, a salutar m’affaccio,
E l’antica natura onnipossente,
Che mi fece all’affanno. A te la speme
Nego, mi disse, anche la speme; e d’altro
Non brillin gli occhi tuoi se non di pianto.
Questo dì fu solenne: or da’ trastulli
Prendi riposo; e forse ti rimembra
In sogno a quanti oggi piacesti, e quanti
Piacquero a te: non io, non già, ch’io speri,
Al pensier ti ricorro. Intanto io chieggo
Quanto a viver mi resti, e qui per terra
Mi getto, e grido, e fremo. Oh giorni orrendi
In così verde etate! Ahi, per la via
Odo non lunge il solitario canto
Dell’artigian, che riede a tarda notte,
Dopo i sollazzi, al suo povero ostello;
E fieramente mi si stringe il core,
A pensar come tutto al mondo passa,
E quasi orma non lascia. Ecco è fuggito
Il dì festivo, ed al festivo il giorno
Volgar succede, e se ne porta il tempo
Ogni umano accidente. Or dov’è il suono
Di que’ popoli antichi? or dov’è il grido
De’ nostri avi famosi, e il grande impero
Di quella Roma, e l’armi, e il fragorio
Che n’andò per la terra e l’oceano?
Tutto è pace e silenzio, e tutto posa
Il mondo, e più di lor non si ragiona.
Nella mia prima età, quando s’aspetta
Bramosamente il dì festivo, or poscia
Ch’egli era spento, io doloroso, in veglia,
Premea le piume; ed alla tarda notte
Un canto che s’udia per li sentieri
Lontanando morire a poco a poco,
Già similmente mi stringeva il core.

“La sera del dì di festa”: la parafrasi

La notte è serena, mite, e non c’è vento
mentre la luce lunare illumina quieta tetti
e giardini, rendendo nitida da lontano
ogni montagna. O mia donna, ormai ognuna delle vie
del borgo è silenziosa, mentre la lampada notturna
manda una fioca luce dai balconi:
tu dormi, dato che il sonno conciliante
ti ha rapidamente accolto nelle tue silenziose stanza; non c’è
nessuna preoccupazione che ti angoscia; e nulla sai
né ci pensi alla ferita che hai procurato al mio cuore.
Dormi; io mi affaccio per salutare il cielo,
che sembra così benevolo guardandolo, e la natura
eterna e onnipossente, che mi ha messo al mondo
perché io soffrissi. Mi disse: a te nego anche la speranza medesima,
e i tuoi occhi
non dovranno brillare se non per le lacrime.
Questa è stata una giornata di festa e ora tu ti riposi
dai divertimenti; e forse in sogno ti torna in mente
a quanti oggi sei piaciuta, e quanti
sono piaciuti a te: sicuramente non ci sono io a ricorrere nei tuoi pensieri,
né mi illudo che questo possa succedere. Intanto mi chiedo
quanto mi rimanga da vivere, e mi butto, urlo,
e fremo in questa mia stanza.
Oh, giorni tremendi dell’età giovanile! Ahi, per strada
odo il canto solitario non distante
dell’artigiano, che torna tardi la notte,
dopo piaceri e divertimenti, alla sua casa misera;
e il mio cuore si stringe in maniera feroce e dolorosa,
al pensiero di come tutto il mondo sia transitorio,
non lasciando quasi nessuna traccia di sé. Ecco
anche il giorno di festa è passato, e a questo segue
il giorno ordinario, e trascina tutti gli avvenimenti umani con sé.
Dove sta ora il suono di quegli
antichi popoli? Dove si trova ora la voce
dei nostri celebri antenati che si leva alta, e il grande
impero di Roma, e il fragore delle armi,
che attraversò sia le terre che gli oceani?
Tutto quanto è pace e silenzio, e tutto il mondo
si riposa, nè si ha più alcuna memoria di loro.
Nel corso della mia gioventù, quando si aspettava
con febbrile desiderio l’arrivo del giorno festivo,
dopo che era passato, io, insonne e sofferente,
rimanevo a letto disteso; e a notte fonda
si udiva un canto smorzarsi
allontanandosi poco alla volta per i sentieri,
nella stessa maniera di oggi il mio cuore soffocava.

venerdì 17 maggio 2019

verbi copulativi

APPELLATIVI
    ESTIMATIVI
ELETTIVI
EFFETTIVI
chiamare credere scegliere essere
dire                         eleggere apparire
soprannominare stimare nominare sembrare
dichiarare considerare creare diventare

giudicare
rivelarsi

ritenere
mostrarsi



riuscire
 tutti questi verbi sono verbi copulativi che reggono il complemento predicativo del soggetto o oggetto


I verbi copulativi sono quelli che non hanno un significato autonomo, ma ne acquistano uno in presenza di un sostantivo o un aggettivo.
Il verbo copulativo per eccellenza è il verbo essere, ma ce ne sono altri come -->

sembrare, parere, risultare, stare, restare, rimanere, diventare, divenire, nascere, morire, vivere

In analisi logica, col verbo copulativo si forma il predicato nominale
[leggete qui un approfondimento della Treccani perché sulla questione predicato nominale/predicativo del soggetto ci sono diverse scuole di pensiero, quindi, in generale, seguite ciò che vi consiglia il vostro professore!!]
Di seguito alcune frasi con verbi copulativi (in grassetto il verbo copulativo, in rosso il predicato nominale)

  • Il mare sembra più chiaro visto dall'alto
  • Un sostanzioso risarcimento pare la soluzione migliore per tutti
  • I miei sono rimasti stupiti dal voto di Inglese
  • Recentemente i loro rapporti sono diventati più distesi
  • Quell'orologio sembra troppo pretenzioso per i miei gusti
  •  Dopo aver saputo la notizia, sono rimasta triste per tutto il pomeriggio
  • Con le tende chiare la tua stanza sembra molto più grande
  • Elena è diventata grande tutto d'un tratto
  • Tutti apparivano stanchi dopo la gara di nuoto
  • Tuo figlio diventa ogni giorno più diligente

l'infinito - Giacomo Leopardi

l'infinito - Giacomo Leopardi

questo idillio ci rivela I sentimenti  e I pensieri che animano il poeta in un momento di contemplazione e di meditazione, in solitudine e silenzio, su un colle solitario .
Lì una siepe impedisce al suo sguardo di spingersi per largo tratto sino al termine dell'orizzonte e favorisce perciò la sua fantasia, che gli fa immaginare, oltre il limite rappresentato dalla siepe, spazi infiniti , silenzi sovrumani e una pace profondissima, di fronte a cui il suo animo si ritrae come preso da sgomento, Ma ad un tratto un alito di vento, frusciando tra I rami degli alberi lo richiama alla realtà : istintivamente egli paragona il fruscio breve del vento al silenzio infinito  della sua immaginazione, che di tanto lo sovrasta. Il vento che passa tra le fronde fa pensare al tempo che passa, e il poeta ancora una volta paragona il temo che invece non ha fine, l'eternità. Con dolcezza il poeta allora poco alla volta si lascia sommergere in questi pensieri  che lo sollevano dalla meschinità della vita terrena alla contemplazione dell'eterno e dell'infinito.







Sempre caro mi fu quest'ermo colle,
E questa siepe, che da tanta parte
Dell'ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
Spazi di là da quella, e sovrumani
Silenzi, e profondissima quiete
Io nel pensier mi fingo; ove per poco
Il cor non si spaura. E come il vento
Odo stormir tra queste piante, io quello
Infinito silenzio a questa voce
Vo comparando: e mi sovvien l'eterno,
E le morte stagioni, e la presente
E viva, e il suon di lei. Così tra questa
Immensità s'annega il pensier mio:
E il naufragar m'è dolce in questo mare.

giovedì 16 maggio 2019

il passero solitario - Giacomo Leopardi

il passero solitario - Giacomo Leopardi

E' uno degli idilli più caratteristici, in cui la contemplazione della natura offre lo spunto alla riflessione. Il Leopardi osserva un passero, che diversamente dagli altri, nel tripudio della primavera e dei voli, se ne sta tutto solo a cantare su un campanile. Il poeta sente di essere simile all'uccelletto : anch'egli  se ne sta tutto solo a meditare, mentre I giovani del paese, lieti e spensierati, si godono il bel giorno di festa. Ma il sole intanto, calando all'orizzonte, sembra ammonire il poeta che la giovinezza poco alla volta se ne va, e non bisogna perciò lasciarsela sfuggire. Per questo conclude amaramente il Leopardi egli è molto più felice del passero : questo si comporta così perché tale é la sua natura, mentre egli dovrebbe come tutti gli altri giovani godere della gioventù fino a che essa dura; da vecchio la rimpiangerà, ma invano.

D'in su la vetta della torre antica,
Passero solitario, alla campagna
Cantando vai finchè non more il giorno;
Ed erra l'armonia per questa valle.
Primavera dintorno
Brilla nell'aria, e per li campi esulta,
Sì ch'a mirarla intenerisce il core.
Odi greggi belar, muggire armenti;
Gli altri augelli contenti, a gara insieme
Per lo libero ciel fan mille giri,
Pur festeggiando il lor tempo migliore:
Tu pensoso in disparte il tutto miri;
Non compagni, non voli,
Non ti cal d'allegria, schivi gli spassi;
Canti, e così trapassi
Dell'anno e di tua vita il più bel fiore.

Oimè, quanto somiglia
Al tuo costume il mio! Sollazzo e riso,
Della novella età dolce famiglia,
E te german di giovinezza, amore,
Sospiro acerbo de' provetti giorni
Non curo, io non so come; anzi da loro
Quasi fuggo lontano;
Quasi romito, e strano
Al mio loco natio,
Passo del viver mio la primavera.
Questo giorno ch'omai cede alla sera,
Festeggiar si costuma al nostro borgo.
Odi per lo sereno un suon di squilla,
Odi spesso un tonar di ferree canne,
Che rimbomba lontan di villa in villa.
Tutta vestita a festa
La gioventù del loco
Lascia le case, e per le vie si spande;
E mira ed è mirata, e in cor s'allegra.
Io solitario in questa
Rimota parte alla campagna uscendo,
Ogni diletto e gioco
Indugio in altro tempo: e intanto il guardo
Steso nell'aria aprica
Mi fere il Sol che tra lontani monti,
Dopo il giorno sereno,
Cadendo si dilegua, e par che dica
Che la beata gioventù vien meno.

Tu, solingo augellin, venuto a sera
Del viver che daranno a te le stelle,
Certo del tuo costume
Non ti dorrai; che di natura è frutto
Ogni vostra vaghezza.
A me, se di vecchiezza
La detestata soglia
Evitar non impetro,
Quando muti questi occhi all'altrui core,
E lor fia voto il mondo, e il dì futuro
Del dì presente più noioso e tetro,
Che parrà di tal voglia?
Che di quest'anni miei? che di me stesso?
Ahi pentirommi, e spesso,
Ma sconsolato, volgerommi indietro.